La pace è una politica

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Nessuna meraviglia: la Libia è esplosa letteralmente sul terreno, grazie alle cannonate di Gheddafi contro la gente che si ribella e grazie ai missili degli «alleati», ma è esplosa in tutte le aggregazioni, i media e – oserei dire – le coscienze di movimenti sociali, pacifisti, sinistre. Dopo aver assistito pressoché inerti (almeno questa è stata la mia impressione) al degenerare della rivoluzione libica in uno scontro asimmetrico, in cui i ribelli non avevano né armi né organizzazione né approvvigionamenti tali da concedere loro una speranza di vittoria, tutti si sono svegliati di colpo quando il primo proiettile francese ha toccato il suolo libico. Ne è seguita un’alluvione di comunicati, appelli, riflessioni individuali e di gruppo, convocazione di riunioni e aggiustamenti di tiro su manifestazioni già  in preparazione. Credo sia stata la parola «guerra» – sia detto senza ironia alcuna – a far scattare la molla. Più il fatto che a condurla sono le nazioni occidentali. Di colpo ci siamo sentiti più giovani, anche se magari più fiacchi e divisi, come eravamo nel 2003, all’epoca della guerra in Iraq. E di nuovo si è opposto, nella maggior parte delle prese di posizione, il rifiuto assoluto della guerra. Giusto. Sono un veterano della prima guerra del Golfo, del 1991: nel senso che ero al manifesto e, su impulso di Luigi Pintor, prendemmo per primi, e a lungo da soli, quella posizione intransigente, non senza critiche dentro e fuori il giornale. Ma allora, e ancora nel 2003, due anni prima con l’Afghanistan, durante i bombardamenti della Nato su Belgrado (siamo veterani, come pacifisti, di molte guerre), intendevamo quella posizione assoluta come la premessa dell’unica politica possibile, perché la guerra non è una politica ma un atto di violenza che genera altri atti di violenza, come le vicende afghane dimostrano. Abbiamo ripetuto, in generale inascoltati da governi di ogni tipo, che c’erano altre possibilità . Un embargo, un aiuto alla società  civile di questo o quel paese, una pressione diplomatica concorde, una «diplomazia dal basso», uno scambio economico meno iniquo, insomma i mezzi pacifici che cambiano davvero le cose. La Tunisia e l’Egitto, pur tra mille contraddizioni e spinte differenti, mostrano come una società  che sappia unirsi e che rifiuti di combattere con le armi del suo avversario possa cancellare dittature ultradecennali. Ma mentre ci siamo entusiasmati dei gelsomini e di piazza Tahrir, non ci siamo mai scaldati per la ribellione libica. E quando si è trattato di opporsi ai bombardamenti, molti sono rimasti letteralmente senza parole: il rifiuto della guerra non è diventato l’indicazione di una politica ragionevole e possibile. La domanda «sì, siamo contro le bombe, ma che ne sarà  dei ribelli di fronte alle armi di Gheddafi?» è rimasta inevasa. Qualcuno ha perfino cercato delle differenze, tra libici e tunisini, egiziani (siriani, yemeniti, marocchini, del Bahrein…), scrivendo che sono tribali, troppo amici di Sarkozy, monarchici ecc., perdendo così di vista la sostanziale somiglianza tra tutte le rivoluzioni arabe, e quindi la necessità  di cercare una spiegazione a questo fenomeno che sta cambiando il Mediterraneo e il mondo. Per fortuna, mentre riempivamo il sito – nel tentativo di dar conto di tutte le posizioni – di comunicati e articoli, abbiamo incontrato domande simili alle nostre. Se vi va, date una scorsa ad articoli come quelli di Lanfranco Caminiti, di Tonino Perna, della rivista francese «Mémoires des luttes» (fatta da Ignacio Ramonet e Bernard Cassen), o a diversi commenti a questi e altri articoli nel sito di DKm0. Magari sarà  più chiaro perché condannare le scelte dei governi occidentali non comporti necessariamente abbandonare al loro destino i ragazzi ribelli che Bernardo Valli racconta su Repubblica e Stefano Liberti sul manifesto.


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