Libia, il mestiere delle armi – 2
Le immagini dell’attacco alla Libia continuano a svelare particolari che aprono scenari inquietanti. Dopo l’immagine del cannone Palmaria, costruito dall’Oto Melara (Finmeccanica), una foto pubblicata da Repubblica tre giorni fa ha messo in allarme gli abitanti della valle del Sacco, nel comune di Colleferro, in Lazio. Qui sorge infatti la Simmel Difesa Spa, un’azienda produttrice di armi accusata in passato di aver costruito ed esportato cluster bomb (anche se sulla home page è scritto che dal 2000 non produce tali armamenti). La Retuva (Rete per la tutela della valle del Sacco) ha diffuso ieri un documento nel quale suggerisce che alcune munizioni dell’esercito libico provengono dall’Italia, e precisamente da Simmel Difesa e Snia Bpd. La foto in questione è quella pubblicata sopra, dove, alla base dei proiettili, si legge chiaramente la sigla Bpd e parzialmente Simmel (Simm).
“In causa – scrive l’associazione – sarebbero rispettivamente la Snia Bpd per le cariche di lancio delle munizioni di artiglieria da 155 mm e la Simmel per il proiettile”. La scritta 1-16-84 sarebbe la data di produzione dell’ordigno, due anni prima dell’embargo e del raid americano su Tripoli. Il ruolo della Snia Bpd, oggi in amministrazione straordinaria, è stato evidenziato da Gianluca Di Feo, giornalista di Repubblica, nel suo libro ‘Veleni di Stato‘, nel quale racconta la vendita di armamenti, e in particolare i proietti da 155 millimetri all’Iraq, proiettili che vennero modificati in loco grazie a disegni e test realizzati nei laboratori della Snia.
“Il tutto – commentano i membri di Retuva – per costruire alcune delle più tristemente celebri armi chimiche, utilizzate poi dal dittatore nelal guerra Iran-Iraq. Come sono arrivati i proiettili da 155 mm in Libia? Direttamente o tramite triangolazioni? Probabilmente in modo diretto nel periodo 1980-1986. Anch’essi furono forniti con le modifiche e le istruzioni necessarie a trasfomarle in vettori di gas chimici?”. La Retuva sostiene che non è cosa impropria congetturare che per la Libia sia avvenuto ciò che avvenne per l’Iraq, ovvero la fornitura, nei primi anni Ottanta, di componentistica e tecnologia per assemblare armi in grado di alloggiare sostanze chimiche. “Come potrebbe essere verosimile – prosegue il documento – anche la vendita di razzi Firos, come già avvenuto in Iraq, per lanciatori MLRS (Multiple Launch Rocket System), razzi con gittata dai 25 ai 30 chilometri, anch’essi modificabili con gas chimici e contenenti sub-munizioni che le identificherebbero come cluster bomb”.
Con l’accordo del 2003 la Libia ha accettato di smantellare il suo arsenale chimico, ma conserverebbe ancora la metà del suo stock di iprite (50 tonnellate), la cui distruzione – secondo il New York Times – avrebbe dovuto cominciare a maggio. Nessuno sa se i miliziani di Gheddafi sono in grado di utilizzare questa arma chimica. L’ex vice-capo della National nuclear security administration Usa, William Tobey, ha assicurato al quotidiano Usa che “migliaia di munizioni che possono veicolare la letale sostanza per la guerra chimica sono state distrutte. L’iprite libica è molto difficile da gestire e non sono sicuro che sia utilizzabile” L’arsenale chimico di Gheddafi rappresenta tuttavia ancora una preoccupazione per qualcuno. Il Daily Telegraph, citando fonti statunitensi anonime, ha riferito il 3 marzo che le forze speciali britanniche erano pronte a intervenire per sequestrare quantitativi di iprite e altre sostanze chimiche con un blitz negli arsenali libici.
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