Sì alla nomina, poi la stoccata gelo tra Napolitano e premier sui “guai” del neo ministro
ROMA – «Presidente, mi assumo io la responsabilità politica della proposta: questa nomina è necessaria per l’equilibrio e la stabilità del governo». Silvio Berlusconi ha deciso di forzare la mano a Napolitano. Così, in un teso colloquio alla presenza di Gianni Letta, mentre fuori dalla porta aspetta trepidante Saverio Romano accompagnato dalla moglie e dal figlio dicianovenne, si consuma l’ultimo strappo tra palazzo Chigi e il Quirinale. Perché Napolitano non si dà affatto per vinto, anzi ci tiene a ribadire che le sue «perplessità politico-istituzionali» restano intatte, esattamente come erano state già comunicate nei giorni scorsi a Palazzo Chigi. È infatti da tempo, almeno dalla visita del premier al Colle di una settimana, che va avanti questo braccio di ferro sotterraneo sul nome del ministro dell’Agricoltura. Una nomina che Napolitano ritiene quantomeno inopportuna finché non si sarà definitivamente chiarita la posizione del politico siciliano davanti al Gip. Ma per Berlusconi il tempo stringe. I Responsabili, dilaniati al loro interno su chi deve andare al governo e chi resterà a bocca asciutta, su una cosa sono invece tutti d’accordo: il premier deve accettarli al tavolo, altrimenti lo faranno saltare. A cominciare dalla giustizia, il terreno scelto per le azioni di guerriglia. Il Cavaliere sa di avere il coltello alla gola: a Montecitorio ieri si votava in giunta sul conflitto d’attribuzione e tra poco dovrà pronunciarsi l’Aula. I Responsabili, come si è visto, sono determinanti. Così come sull’emendamento Paniz sulla prescrizione breve, che salverà Berlusconi da una condanna al processo Mills. Non c’è più tempo per esitazioni e per dare ascolto ai richiami del Colle alla «prudenza». Il Cavaliere vede a rischio la stessa tenuta della maggioranza e, con questa minaccia, si presenta al Quirinale: «Senza la nomina di Romano non posso escludere una crisi di governo». È una forzatura evidente, perché non è il Colle a dover risolvere i problemi della maggioranza. «I decreti di nomina dei ministri – si fa notare al Quirinale – si firmano valutandone tutti i requisiti». Quello di Berlusconi è un diktat per mettere Napolitano con le spalle al muro: ingoiare il rospo Romano per evitare le elezioni. Il capo dello Stato non può che prendere atto della decisione del Cavaliere di andare avanti comunque ma, poco prima di entrare nella sala della Pendola per il giuramento del neo-ministro, annuncia al premier e a Letta l’intenzione di rendere pubbliche le sue riserve. È l’ultima carta che gli resta in mano. Come promesso, l’inchiostro del decreto di nomina non si è ancora asciugato che già le agenzie di stampa battono i flash sul comunicato del Quirinale. Lasciando solo al premier il peso di una scelta ritenuta azzardata. Perché spingersi fino a rifiutare la nomina, come pretendevano i dipietristi (e anche molti del Pd e di Fli, pur senza dirlo apertamente), non è stato ritenuto possibile. Già la scelta di formalizzare le proprie obiezioni in una nota pubblica è stata una decisione sofferta, ma dal Colle si fa presente che non sussistevano le ragioni giuridiche e formali per arrivare ad una aperta rottura istituzionale con il governo. Dal Quirinale erano comunque partiti diversi segnali di grande preoccupazione indirizzati a Palazzo Chigi sui procedimenti aperti. Tanto da spingere Saverio Romano al contropiede: lunedì ha fatto arrivare a Gianni Letta tutto il fascicolo giudiziario che lo riguarda. Un faldone che deve aver soddisfatto il sottosegretario, che infatti ha provveduto a inviarlo a Donato Marra, il segretario generale del Quirinale, accompagnandolo da una nota autografa. Come a dire: per noi è pulito. Anche Berlusconi, pressato da Alfano e Schifani, due grandi sponsor del neo ministro, garantiva che «tutti i casi sono chiusi. Su Romano non c’è nulla». Il clima rilassato della cerimonia del giuramento deve poi aver convinto i presenti che l’annuncio di Napolitano – renderò pubbliche le mie perplessità – forse non andava preso alla lettera. Il capo dello Stato tratta amabilmente il neoministro e la moglie, indica il figlio e si lascia andare a una battuta: «Che giovanotto, è più alto di lei!». Cortesie umane, scambiate da Berlusconi e Romano per un’accettazione della nomina. E invece no, dopo poco arriva la doccia fredda. Ora, dopo il blitz e la rampogna del Quirinale, Berlusconi mastica amaro. «Siamo diventati una repubblica presidenziale – si lamenta il premier con i fedelissimi – ormai Napolitano ci mette sotto tutela». Eppure non una parola viene pronunciata contro Napolitano, né dal Cavaliere né dai suoi, nonostante l’ira consumata in privato. «Non possiamo andare allo scontro totale con il Quirinale – spiega il premier – altrimenti offriamo il pretesto a Fini e Casini per buttarsi nelle braccia del Pd e lanciare la Santa Alleanza contro il sottoscritto».
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