E la fan del raìs sputò sulla sua foto le crepe del regime dietro le adunate

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TRIPOLI – Venerdì 25 febbraio, il primo giorno dopo l’arrivo a Tripoli, a poche ore dal rude contatto dei giornalisti italiani con i «kataeb» all’uscita dell’aeroporto (schiaffone e calci per uno, breve arresto per tutti), i gentili organizzatori del governo libico che guidano la carovana mediatica ci portarono in piazza Verde. Era la prima manifestazione del venerdì dopo le proteste e i morti nelle moschee, il primo venerdì di militanza gheddafiana organizzata ed esibita. Nel carnevale assordante e pericoloso, una ragazza truccata, ricca e ben vestita, alla guida di un macchinone giapponese, si avvicinò anche lei brandendo dal finestrino il suo bel poster del colonnello. Suonava, cantava e urlava lo slogan d’obbligo, «Allah/Muhammar u Lybya u Bas», ovvero «Allah-Muhammar – la Libia e basta». Poi all’improvviso, la pariolina di Tripoli, guardando bene che ci fossero solo stranieri, avvicinò il volto del colonnello al suo, ci sputò sopra rabbiosamente e continuò a sgommare, sogghignando e strombazzando. Eravamo ancora troppo scioccati, ignoranti e confusi in quella bolgia di segni e segnali che è la Libia di oggi. Ma dopo un mese, i segni di dissenso, le prime crepe, il pre-allarme di uno sgretolamento iniziano a emergere. Non vuol dire nulla, non lascia presagire un crollo, una dissoluzione o cos’altro sulla tenuta del regime. Ma è cronaca. Purtroppo, per evitare che i solerti traduttori della Jana e dell’ambasciata libica a Roma spediscano la sintesi delle nostre cronache a Tripoli includendo nomi e cognomi, evitiamo di farli. Tra l’altro anche loro non sanno come verrà  giudicata fra pochi giorni la loro lealtà  a questo regime. «Vedi, tutti qui stiamo seguendo le divisioni in Europa, nel governo italiano, tutti sappiamo che Gheddafi spera di allargare queste divisioni, di trovare ossigeno per continuare a combattere e magari ripulire del tutto almeno la Tripolitania», dice uno, «ma sappiamo pure che prima o poi Obama, Sarkozy, Berlusconi e Cameron si metteranno d’accordo, si spartiranno qualcosa. E allora non possiamo restare legati al destino di un uomo solo». Queste sono le parole di un uomo terribilmente vicino al sistema, informato, integrato e attivissimo, ai massimi livelli. Nei mercati, nei negozi, la gente è meno sofisticata, ma non meno efficace: «Questo popolo ha retto Gheddafi per 40 anni: all’inizio eravamo orgogliosi, ci ha dato forza e visibilità  nel mondo. La Libia è sempre stata una terra violenta, gli oppositori uccisi a Tripoli o in giro nelle vostre città  erano pochi, erano solo un esempio. Ma da dieci, vent’anni i massacri, la repressione, la violenza ci hanno costretto a piegarci, ma anche ad odiare». Sempre quel venerdì 25, scappando a piedi dalla moschea di piazza Algeria mentre il primo corteo di protesta veniva fermato a colpi di Kalashnikov dei kataeb, i militanti che comandano anche alla polizia, un signore di 60 anni sibilò correndo «state attenti, qui c’è polizia in borghese, non parlate, non correte, siete europei, vi fermeranno per primi». Dopo qualche giorno di bombardamenti alleati, dopo la paura delle prime notti, le parole aumentano. «Sì, abbiamo paura delle bombe, ma vediamo che non stanno colpendo la città : ai bambini la notte diciamo che sono fuochi artificiali, ma lo sentite anche voi, le bombe americane non si sentono, quella che si sente è la loro contraerea che spara in aria per terrorizzare noi più che gli aerei». Molti dei nostri gentili accompagnatori ci hanno sempre ripetuto che «alle prime bombe il popolo si stringerà  attorno al suo leader, anche quelli che lo hanno criticato, noi libici siamo così!». Non è vero: nelle case la notte e nei negozi il giorno i libici aspettano una bomba, unica e precisa, che metta fine a tutto. «Poi vedremo cosa sarà , ma qualsiasi cosa sarà  meglio, adesso basta». Per sopravvivere, per soffocare la ribellione che anche a Tripoli stava per diffondersi dalle moschee, nelle prime settimane il regime terrorizzato ha mandato la polizia politica in forza nei quartieri popolari. Gli squadroni della morte hanno fatto sparire tutti quelli che individuavano dai filmati delle proteste. Poi hanno sequestrato i giovani nei cui telefonini scoprivano video delle proteste. Poi hanno fatto sparire di notte un giovane per famiglia nei quartieri-caldi di Fashlum e Suk el Juma. Poi hanno iniziato a sparare lacrimogeni e in aria con i kalashnikov il venerdì mattina, prima ancora che la gente entrasse nelle moschee. «Ci hanno terrorizzato, ma adesso hanno contro un esercito di popolo, disarmato, pronto a uscire per strada e massacrarli con le nostre stesse mani». Al Jamahiria, Al Shababia, Libia 1 e Libia 2, le televisioni del regime, continuano a drogare di propaganda il paese. Passa e ripassa in video la scena dei ribelli di Bengasi che strappano il cuore carbonizzato di uno dei soldati uccisi nell’esplosione di un cingolato. E lo calpestano. Immagini che terrorizzano e galvanizzano le centinaia, le migliaia di libici ancora vicini a Gheddafi. «Ma quello che hanno fatto al cuore dei libici loro lo sanno benissimo, e sanno che nessuno dimenticherà », dice un padre mite e cortese: «Mia moglie vorrebbe fare lo stesso con i loro cuori. Cosa aspettano l’Europa e l’America a mettersi d’accordo?».


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