La coalizione dei litigiosi

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PARIGI. Al terzo giorno dall’inizio dell’intervento in Libia, non solo la «comunità  internazionale», ma anche la coalizione impegnata nell’attacco nasconde male le divisioni interne. Per non parlare dell’Unione europea, che resta lacerata. L’Italia minaccia di togliere le basi, se la Nato non dirige l’operazione. La Francia, ostile, ribatte: «applichiamo la risoluzione Onu». Ma anche la Norvegia si defila: fermi fino a che non c’è chiarezza. Anche sul nome non c’è unanimità : per gli Usa si chiama Dawn of the Odyssey, per la Francia Harmattan, per la Gran Bretagna Operation Ellemy e per il Canada, Mobile.

Chi comanda?
Gli Usa restano prudenti. Non intendono «aggiungere obiettivi» alla risoluzione, ha precisato Robert Gates, segretario Usa alla difesa, che già  prevede una diminuzione dell’impegno. Ma Washington, se l’intervento dura, vedrebbe di buon occhio o un comando congiunto Francia-Gran Bretagna o devolvere questo compito alla Nato. Gran Bretagna, Canada, Belgio, Italia e Lussemburgo propendono per un comando Nato. Ma la Francia si oppone fin dall’inizio, perché teme che darebbe un colore troppo coloniale all’operazione, anche se Juppé ammette: «appoggio Nato probabile tra qualche giorno». La Turchia è anch’essa contro: per Ankara, che chiede un chiarimento in sede Nato, anche le condizioni in cui si è costituita la coalizione non hanno rispettato le regole internazionali. La Germania, ostile all’intervento, è naturalmente contro un coinvolgimento della Nato. La Francia ha aperto il fuoco per prima e aspira alla leadership, anche se i Rafale non sono riusciti ad abbattere la difesa anti-aerea libica: solo i Tomahawk Usa e britannici, che la Francia non possiede, hanno portato a termine l’operazione.

L’Europa profondamente divisa
Ieri, il ministro degli esteri francese, Alain Juppé, ha affermato che l’operazione finora è stata «un successo» perché «ha evitato un bagno di sangue» a Bengasi. Il Consiglio affari esteri, ieri a Bruxelles, ha votato l’estensione delle sanzioni alla Libia, portando da 27 a 38 le persone del regime i cui beni verranno congelati e saranno privati di visto e ha esteso da 5 a 14 il numero delle società  libiche sotto embargo. Ma tra queste non sembra esserci, per ora, la Noc, l’ente petrolifero libico: l’Italia si oppone. La lista sarà  così resa nota solo oggi, mentre giovedì, al Consiglio europeo dei capi di stato e di governo, dovrà  essere votato il regolamento dell’attuazione della risoluzione 1793. Ma ieri, il ministro degli esteri tedesco, Guido Westerwelle, ha ribadito: «abbiamo detto fin dall’inizio, molto chiaramente, che non parteciperemo all’azione» a causa dei «rischi» che fa correre. «Ascoltando la Lega Araba – ha aggiunto – sfortunatamente constatiamo che abbiamo ragione di essere preoccupati». Il ministro degli esteri bulgaro, Boà¯ko Borissov, ha parlato di «avventura», mentre la Romania appoggia l’intervento e dice che deve andare fino in fondo e cacciare Gheddafi.

Le ambiguità  della Lega Araba
La Russia si era astenuta nel voto della risoluzione 1793 al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 17 marzo, ma ieri il primo ministro Putin ha definito l’azione «una crociata», termine giudicato però «inaccettabile» dal presidente Medvedev. La Lega Araba, che in un documento ambiguo aveva dato il suo appoggio alla no fly zone ma aveva respinto l’ingerenza, ieri era in una posizione incerta. Il segretario della Lega, l’egiziano Amr Moussa, domenica, aveva preso le distanze, affermando che «ciò che è successo in Libia differisce dall’obiettivo che era di imporre una no fly zone e ciò che noi vogliamo è la protezione dei civili e non il bombardamento di altri civili». Ieri, dopo un contatto con il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, Moussa ha moderato i toni e ha affermato che «non c’è nessun disaccordo», pur ribadendo che la Lega Araba «continua ad adoperarsi per la protezione dei civili. Chiediamo a tutti di prendere questo in considerazione in tutte le azioni militari». Ma l’Egitto ha deciso che non parteciperà  alla coalizione, «per ragioni di sicurezza interna». Obama – e anche la Francia – insistono sulla necessità  di una presenza araba, per legittimare l’azione. Il Qatar, che pare finanzi l’insurrezione a Bengasi, potrebbe inviare qualche aereo. Gli Emirati, che ne avevano promessi 24, parlano ora solo di «aiuto umanitario». La Tunisia e l’Algeria hanno condannato ieri l’intervento.

Divisioni sulla sorte di Gheddafi
Per il ministro degli esteri britannico, William Hague, Gheddafi potrebbe essere un bersaglio. Alain Juppé è sulla stessa posizione: «non raccontiamoci storie: è evidente che lo scopo di tutto ciò è permettere al popolo libico di scegliere il regime, e non ho la sensazione che la scelta sarebbe Gheddafi». Per il primo ministro belga Yves Leterme, Gheddafi «va sloggiato», anche con un intervento a terra. Ma l’Alta rappresentante della politica estera della Ue, Catherine Ashton, frena: «Bruxelles vuole vedere cosa l’Ue può fare di più in sostegno alla risoluzione sul piano umanitario a lungo termine». C’è l’ipotesi, nell’immediato, di un corridoio aereo o marittimo per l’evacuazione dei civili.

Sarkozy, guerriero sconfitto
L’Ump, il partito di Sarkozy, è uscito a pezzi dal primo turno delle cantonali, un’elezione locale in metà  dei dipartimenti francesi, che ha rivelato una preoccupante crescita del Fronte nazionale (al 19% dove era presente, che significa 15% a livello nazionale) e dove la sinistra, pur arrivata in testa, rischia di pagare le divisioni al secondo turno di domenica prossima. Sarkozy rifiuta però il fronte repubblicano: l’Ump non ha dato nessuna consegna di voto agli elettori per opporsi all’estrema destra, in caso di ballottaggio sinistra-Fronte nazionale. Ma l’ala centrista del partito protesta e minaccia scissioni.


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Inuovi profeti della rivoluzione non somigliano più a Che Guevara. Non pensano che il potere nasca dalla canna del fucile. Semmai da twitter e dai cellulari. Il loro riferimento non sono più Lenin o Mao, e nemmeno Khomeini. Sono Gandhi, Aung San Su Kyi, Nelson Mandela. Predicano e fomentano la ribellione e la disobbedienza civile, non la guerra civile. Sono l’incubo dei dittatori di lungo corso, si sono rivelati capaci, contro ogni previsione, di scuotere e far crollare come castelli di sabbia regimi che sembravano di ferro. La loro “Internazionale” non ha nessun “centro”. Non è riconducibile a nessuna delle ideologie “forti” che avevano segnato il Novecento e nemmeno ai sussulti nazionalistici e religiosi che poi le hanno soppiantate. Non hanno mai preteso di “esportare” alcunché, nemmeno la democrazia. E comunque non alla maniera dei nostalgici di Bush.

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