Ecco s’avanza uno strano movimento: sociale e universale. Intervista a Mario Agostinelli
In Movimento. L’intervista a Mario Agostinelli pubblicata nel 2001, a ridosso del Social Forum Europeo di Firenze, nel secondo dossier dell’agenzia Testimoni di GeNova dal titolo “Verso Porto Alegre”
Mario Agostinelli ha 57 anni ed è stato a lungo – troppo a lungo, a dire dei suoi avversari dentro la CGIL, che hanno condotto contro di lui una guerra sfibrante e serrata perché, lì dov’era, dava fastidio – segretario regionale della CGIL-Lombardia. Iscritto “semplice” ai Ds e tra i firmatari della mozione Berlinguer, membro del direttivo nazionale di Attac, Agostinelli oggi, da un lato, sta partecipando alla costruzione del Forum sociale lombardo e dall’altro ha accettato l’incarico, affidatogli dalla CGIL nazionale, di costituire il segretariato del più grande sindacato italiano in Europa, per la precisione a Bruxelles, dove Agostinelli presto si trasferirà anche fisicamente. Promoveatur ut amoveatur, hanno detto in molti, non senza malignità. Di certo, Agostinelli è un personaggio pubblico scomodo, che non le manda a dire, anche e soprattutto per l’attuale maggioranza interna di area “riformista” della CGIL, ma soprattutto è un personaggio pensante. Come dimostrano i suoi interventi pubblici, i suoi articoli (spesso ospitati dal quotidiano il manifesto) e anche quest’intervista. Di gente come lui, c’è bisogno. Nel sindacato italiano e fuori di esso. Non fosse altro perché – ricorda lui stesso – «il mio ultimo atto di segretario regionale della CGIL fu di aderire al corteo di Genova. Ne vado ancora oggi ben orgoglioso».
Agostinelli, partiamo da Genova, passiamo per Assisi e vediamo dove riusciamo ad arrivare…
Il movimento antiglobalizzazione è uno dei veri fatti nuovi nella scena globale e locale mondiale. Riprendendo Hobsbwamn, che si augurava – nei suoi libri – che alcune ideologie e correnti di pensiero oggi sotterranee del passato tornassero a emergere, credo che stia succedendo proprio questo. Nutro una grande speranza, personalmente, nella dimensione sia politica che sociale propria di questa nuova generazione. Quando si crea una specificità generazionale, inoltre, vuol dire che si sta creando anche una sedimentazione più profonda pure rispetto alle esperienze negative delle generazioni precedenti. La lettura che gran parte dei leader politici dell’Ulivo hanno fatto di Genova, come di Assisi, è ridicola e banale: il punto è che gran parte di loro non appartiene al sentire profondo di questa nuova generazione che è in campo. Non la capiscono, e ragionano in termini elettoralistici vecchi, frusti, scontati, cinici. I ragazzi che sono scesi in piazza, invece, hanno capito che non si può più ragionare in termini – ad esempio – di americanismo e di antiamericanismo, ma anche e soprattutto che non si può chiudere nei propri confini e che l’orizzonte è il mondo stesso, i suoi destini, nella sua più totale interezza. E il mondo non è diviso in due, non è fatto di Occidente e di Islam, come crede Bush, è un mondo unico.
Ecco, la guerra. Sembra creare forte impasse nel movimento, quasi togliendogli la parola.
Questo movimento è fatto di tante provenienze e di tante matrici diverse, che devono sapersi parlare: i cattolici, ad esempio, si devono misurare con un lungo retaggio precedente nel corso del quale hanno rappresentato un elemento di divisione e non certo di unità verso le lotte del movimento operaio. Oggi, invece, i cattolici non pensano a dividerci, cercano l’unità con noi, si dividono piuttosto al loro interno, tra chi si colloca stabilmente nell’area conservatrice o moderata (l’ala più integralista, Cl, per capirci) e chi invece vuole marciare con noi, con il movimento, e si mette a confronto e a disposizione di tutti. Poi c’è la sinistra, c’è il sindacato, ci sono i centri sociali. Certo, le difficoltà sono enormi. Nell’attuale e difficile fase di passaggio dal Genoa Social Forum al Forum Sociale italiano ci sono da affrontare alcuni nodi importanti, delicati. Il movimento è nato strutturalmente privo di leader e tale deve rimanere, conservando il suo modello “a rete”, mentre la questione della leadership per ora non può che essere rimandata, o meglio accantonata. Del resto, se mi permetti di dire una cosa, quelli che ci tengono di più ad accreditarsi come presunti leader del movimento, quelli che vanno sempre in televisione, chi hanno poi, realmente, dietro di loro? Poche, pochissime persone, quello che li supporta e che loro usano come volano è il sistema dei media. Inoltre, stiamo parlando delle stesse persone, ad esempio di alcuni leader dei centri sociali, che hanno accettato di farsi imporre – dalla destra e dai media – la drammatizzazione degli eventi e della forza, come a Genova, dove hanno fatto tanta retorica sull’assalto alla “zona rossa”, usando un linguaggio militare e militarizzato che andava invece respinto con fermezza. La grande intuizione di Genova, invece, era stata proprio quella di isolare i potenti, non di assalirli.
Di nuovo pace e guerra, conflitto e non violenza. Resteremo incastrati dentro questo dilemma?
Oggi, l’universalità dei diritti dei lavoratori come dei consumatori, dunque il tentativo di ricomporre e ricongiungere le lotte e le necessità di questi due soggetti sociali, è il tema centrale, per il movimento. Solo uno come Galli della Loggia può irridere ai pacifisti imbelli che scendono in piazza alla Perugia-Assisi avendo come parole d’ordine “acqua, lavoro, cibo e pace”! Ma possibile non capisca? La novità straordinaria ed eccezionale del movimento è proprio quello di aver ricomposto la frattura tra cattolici e terzomondisti da un lato, e sinistra e sindacato dall’altro, l’aver capito che i diritti non si possono affermare se lo sviluppo non è equo e per tutti, se l’ambiente e la pace vengono minacciate. Oggi il movimento ha capito che lottare per i diritti sociali è importante come lottare per i diritti civili, infine – di fronte a quello che sta succedendo nel mondo – bisogna aggiungere che si può e si deve lottare per la pace, perché la guerra nega l’affermazione di tali diritti e distrugge le risorse del mondo. Però fammi dire una cosa, su questo punto. Al di là della cultura bellicista dei D’Alema e dei Rutelli, il problema è anche una certa cultura post-sessantottina che fa dire oggi, per esempio, ad Adriano Sofri che l’intervento militare può imporre la ragione. Questo illuminismo deteriore, anche, credo, è da sconfiggere. La guerra produce solo e sempre ingiustizia e perdita dei diritti, la guerra non è mai e non potrà essere mai “umanitaria”, come molti s’illusero già ai tempi del Kosovo.
Nel 2002 si svolgerà il Forum mondiale di Porto Alegre. Come credi che ci si dovrebbe arrivare?
Il problema vero che abbiamo di fronte, come Forum sociale milanese, lombardo, italiano ed europeo, è questo: le grandi manifestazioni e anche le grandi riflessioni del movimento e dell’area impropriamente definita “no global” sono tutte avvenute nella “nostra” parte del mondo, in territori che possiamo definire “occidentali”. Abbiamo purtroppo lasciato fuori e trascurato due grandi continenti: l’Africa e il mondo islamico. La lotta per la globalizzazione dei diritti civili e sociali deve invece prendere corpo e piede anche lì. Nel Sud America, ad esempio, proprio nel Brasile dove verrà organizzato il Forum Mondiale di Porto Alegre, il più grande sindacato di quel Paese, la Cut, ha creato una forte connessione tra il mondo del lavoro e quello contadino, grazie all’alleanza con il movimento dei Sem terra: Il sindacato – e qui parlo anche e soprattutto di un sindacato grande e importante come quello italiano che fa perno sulla CGIL – si deve spendere di più e battere a fondo per sostenere questo movimento. Il punto di arrivo, mi auspico, è la creazione di una sorta di nuova “Internazionale”, del Forum sociale del nuovo Millennio, che però deve essere in grado di portare le sue battaglie anche in luoghi dove non c’è, come l’Africa e l’Islam. Per fare questo bisogna essere duramente contro questa guerra, ma anche altrettanto duramente contro il terrorismo, fenomeno che corrisponde a una privatizzazione e insieme a una globalizzazione, oltre, che a un imbarbarimento, ovvio, del potere peggiore di quello che mettono in campo gli Stati nazionali. La guerra e il terrorismo insieme distruggono le culture, le differenze, i diritti e le conquiste sociali. Con le lotte del 1943-45, il movimento sindacale e i lavoratori chiesero non solo l’abbattimento del fascismo e del nazismo, ma anche la fine delle guerre, come delle diseguaglianze. Una lezione, quella, con la quale la socialdemocrazia europea non ha mai voluto fare i conti, ma che vale la pena ricordare. Come oggi vale la pena battersi per affermare l’universalità dei diritti sociali e civili di tutti gli uomini.
Fonte: Ettore Colombo, agenzia Testimoni di GeNova, dossier “Verso Porto Alegre”, 2001
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