Torture a Santa Maria Capua Vetere. Un manuale di etnografia carceraria
Torture, lesioni, depistaggio, falso. Non è questo un sommario dei fatti accaduti a Genova nel 2001 ma è il cuore dell’inchiesta sulle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 in pieno lockdown. Il provvedimento con cui la procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha eseguito ben 52 misure cautelari nei confronti di altrettanti appartenenti al corpo di Polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione costituisce un manuale di etnografia carceraria.
Il primo elemento è la pianificazione della rappresaglia. Dalle conversazioni via whatsapp avvenute tra gli agenti, tratte dagli smartphone sequestrati all’indomani dei fatti, emerge chiara la voglia di vendicarsi per le proteste inscenate dai detenuti nei giorni precedenti. La vendetta si consuma sempre con un’azione spettacolare di forza e violenza. L’operazione a Santa Maria Capua Vetere, che viene giustificata con l’esigenza di fare una perquisizione straordinaria alla ricerca di armi improprie, è condotta da centinaia di agenti quando oramai in carcere non c’era più tensione.
Il secondo elemento è la certezza dell’impunità. Nonostante nell’ultimo anno ci siano state ben due condanne per tortura nelle prigioni di Ferrara e San Gimignano, nonostante le condanne europee per quanto accaduto a Genova nel 2001, nonostante la condanna nei confronti dei carabinieri che hanno ucciso Stefano Cucchi, si continuano a pianificare azioni di rappresaglia illegale senza temere le reazioni dei superiori gerarchici. È come se ci fosse una certezza di impunità. In qualche modo conta l’assenza di un messaggio universale e inequivocabile di inaccettabilità etica della tortura. D’altronde, a commento dell’inchiesta, esponenti di alcune forze politiche hanno affermato che andrebbe cancellata la legge che prevede il delitto di tortura. Dunque non andrebbe eliminata la tortura ma la legge che la proibisce. Negare la violenza significa fare il gioco dei violenti. Nessun paese è esente dal rischio di tortura. Lo abbiamo visto a Genova vent’anni fa. Lo stiamo vedendo a Santa Maria Capua Vetere oggi.
Il terzo elemento è lo spirito di corpo. Negli atti di indagine si intravede come, a vari livelli, si sia cercato di manipolare le prove, depistare le indagini fino a cercare di modificare i contenuti della video-sorveglianza. Una parte delle misure cautelari riguarda chi, nel nome dello spirito di corpo, ha provato a coprire le violenze e le torture, così come accadde nella famosa conferenza stampa post-Diaz o all’indomani della morte di Stefano Cucchi. Lo spirito di corpo è l’ostacolo maggiore per chi lotta – a livello giudiziario, sociale e culturale – contro la tortura. Contribuirebbe a sradicarlo la decisione del ministero della Giustizia di costituirsi parte civile nel processo che si andrà ad aprire nei prossimi mesi. Lo Stato è leso nella propria immagine da chi fa uso arbitrario di violenza.
Infine, il quarto elemento è il linguaggio. Il detenuto è considerato, finanche nelle parole, come un animale. Nelle conversazioni si parla di vitelli e bestiame. Nello slang carcerario resiste la parola «camosci» per chiamare i detenuti. D’altronde c’è chi a livello istituzionale ha usato l’espressione «marcire in galera» che poco si adatta a esseri umani. Ci vuole una rivoluzione di igiene nel linguaggio, affinché esso sia costituzionalmente orientato. Il linguaggio non è solo forma. Il linguaggio, in contesti chiusi come le galere, è performativo.
* Fonte: Patrizio Gonnella, il manifesto
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