La promessa di Biden: «Via tutte le truppe dall’Afghanistan per l’11/9»

La promessa di Biden: «Via tutte le truppe dall’Afghanistan per l’11/9»

Loading

Il presidente degli Stati uniti, Joe Biden, ha deciso: via tutte le truppe americane dall’Afghanistan entro l’11 settembre 2021, in coincidenza con il ventesimo anniversario dall’attacco alle Torri gemelle a cui Washington decise di rispondere con il rovesciamento dell’Emirato islamico d’Afghanistan, il governo dei Talebani accusato di ospitare Osama Bin Laden, e con l’inizio della «guerra al terrore».

ANTICIPATA IERI dal Washington Post, la scelta di Biden dovrebbe essere annunciata oggi. E arriva in extremis: secondo l’accordo tra i Talebani e gli Usa siglato a Doha, in Qatar, nel febbraio 2020, le truppe (circa 3.500 quelle Usa, 7.000 circa della Nato) vanno ritirate entro l’1 maggio 2021.

Nelle scorse settimane, il presidente Usa aveva già lasciato capire che sarebbe stato difficile, per ragioni logistiche, rispettare la scadenza. Ma aveva comunque detto che non riteneva verosimile mantenere le truppe nel 2022, coerentemente con le posizioni espresse negli anni passati, quando invocava la «fine delle guerre infinite» volute da George W. Bush e confermate dai successori.

DOPO VENTI ANNI DI GUERRA, l’amministrazione riconosce che non è più negli interessi strategici statunitensi condurre una guerra sanguinosa in Afghanistan. I pericoli sono altri. E i Talebani, venti anni fa considerati una «minaccia esistenziale» alla sicurezza americana, oggi sono interlocutori diplomatici. Trattati come tali.

Come anticipato sul manifesto, Biden dunque non rispetta l’accordo bilaterale con i Talebani, ai quali deve aver fatto ulteriori concessioni affinché accettassero il posticipo, anche se solo di 4 mesi. Forse la liberazione di altri detenuti, la rimozione dalle “liste nere” delle Nazioni unite. E la certezza ufficiale che tutte le truppe – comprese quelle della Nato, che seguiranno a ruota il disimpegno americano – toglieranno il disturbo.

NON È UN CASO CHE SOLO IERI, contestualmente alla notizia della decisione di Biden, siano state finalmente ufficializzate le date della conferenza di pace che, secondo i piani di Washington, dovrebbe condurre a un accordo politico tra gli esponenti della Repubblica islamica, il governo di Kabul, e quelli del movimento guidato da Haibatullah Akhundzada. Organizzata dai governi di Turchia e Qatar e dalle Nazioni unite, si terrà a Istanbul dal 24 aprile al 4 maggio. È il centro dell’offensiva diplomatica che Washington ha iniziato a marzo, riassunta nella lettera urgente inviata dal segretario di Stato Antony Blinken al presidente afghano Ashraf Ghani, l’uomo che ha aperto le trattative con i Talebani e che oggi è sempre più isolato all’interno del conflittuale fronte “repubblicano”, diviso sulla strategia da seguire e sui piani per condividere il potere con gli studenti coranici. Per Blinken e per Washington, a Istanbul si troverà un accordo che consentirà agli americani di fare le valigie rivendicando di aver fatto il possibile.

MA LA STRADA che conduce all’accordo è in salita. Ancora di più, quella che conduce alla fine delle ostilità, anche se dalla conferenza di Istanbul dovesse uscire un cessate il fuoco di 45 o 90 giorni. Contano i dissidi interni e conta il quadro regionale.
Anche per questo, ieri Biden ha parlato con il suo omologo russo, Vladimir Putin, proponendo un summit in un Paese terzo da tenere nei prossimi mesi. Proprio quelli in cui Mosca, insieme agli altri attori regionali che hanno aspettato 20 anni la certificazione della sconfitta americana, getterà le basi per riempire il vuoto lasciato dal disimpegno Usa.

* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto



Related Articles

Paul Krugman: Ma l’Europa è un disastro la moneta unica è diventata una camicia di forza

Loading

L’analisi 2 /Paul Krugman Il Nobel per l’Economia: la crisi ha colpito tutti, dalla Finlandia alla Spagna

Marocco, riformare la monarchia per renderla eterna

Loading

Mohammed VI concede riforme e, nonostante le polemiche, il popolo gli concede fiducia

Passare da ‘sacro’ a ‘inviolabile’, in effetti, non sembra sulla carta una rivoluzione. Però, in Marocco, non è poco. Il re Mohammed VI, dopo anni di promesse, ha compiuto un passo. Il referendum popolare ha approvato con il 98 percento di consensi la riforma costituzionale proposta dal monarca.

Se il mondo applaude il golpe in Egitto

Loading

EGITTO e Thailandia hanno poco in comune, ad eccezione di una cosa: in entrambi i Paesi, in epoche diverse, dei cittadini istruiti che si considerano con orgoglio democratici hanno finito per salutare con approvazione dei colpi di Stato militari contro dei governi eletti.
Dopo essersi opposti per anni a dei regimi oppressivi, la Thailandia nel 2006 e l’Egitto lo scorso mese, sono stati felici di vedere i loro leader politici estromessi con la forza.

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment