Dopo la strage in carcere, omissioni, depistaggi, segreti e bugie

Dopo la strage in carcere, omissioni, depistaggi, segreti e bugie

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Tra il  7 e il 10 marzo 2020 numerose proteste – alcune violente, ma altre pacifiche – hanno scosso decine e decine di carceri italiane. Il bilancio è tragico e senza precedenti: 13 persone detenute hanno perso la vita.

La sommossa è dilagata nel momento in cui veniva disposto il blocco dei colloqui con i parenti e mentre appariva crescente il rischio del contagio, in una informazione ancora caotica e approssimativa. Tanto più che le indicazioni date per ridurre il pericolo di contagio (distanziamento, lavaggio delle mani, mascherine e guanti) risultano impossibili da attuare nelle celle sovraffollate.

I detenuti si sentono topi in trappola, trattati come tali. Anche la preoccupazione per i famigliari, non più raggiungibili, porta al panico incontrollato. La paura e la disperazione possono far degenerare le situazioni: accade nelle situazioni “normali”, figuriamoci in carcere, figuriamoci mentre esplode una pandemia altamente mortale e dai contorni ancora indefiniti.

Come abbiamo richiamato nel nostro appello di un anno fa, dal quale è nato il Comitato per la verità e la giustizia, l’unica altra vicenda paragonabile per numerosità delle vittime è l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese della Vallette del 3 giugno 1989, allorché perirono tra le fiamme, in preda al terrore e soffocate dal fumo tossico, nove recluse e le due vigilatrici che tentarono inutilmente di aprire le porte delle loro celle per impedire che le donne facessero appunto la fine dei topi in trappola.

Nella inchiesta giornalistica sulla strage di marzo – approfondita e meritoria, pur pubblicata a molta distanza dai fatti – de “la Repubblica” del 17 gennaio 2021, il richiamo storico, forse capziosamente, va invece alla rivolta nel carcere di Trani del 28 dicembre 1980, organizzata dai detenuti politici della lotta armata, che si concluse senza alcuna vittima e con un lungo e violentissimo pestaggio dei reclusi da parte dei reparti speciali.

Il carcere nelle situazioni di emergenza e di pericolo questo diventa: una trappola mortale, dove neppure si può tentare di salvarsi, dove la propria vita dipende totalmente da altri, dalla volontà o distrazione dei custodi, da regole spesso insensate e contradditorie, da misure impraticabili o trascurate, dalla prontezza o ritardo, compiacenza o arbitrio, sciatteria o senso di responsabilità di chi possiede le chiavi della gabbia.

Si può (si dovrebbe) facilmente immaginare quanto ciò potesse – e ha potuto – determinare paura e anche rabbia tra i reclusi. Invece, sulle rivolte e sulla strage si sono immediatamente esercitate le peggiori strategie e smaccate di disinformazione e di speculazione politica e di scalate ai vertici della amministrazione penitenziaria.

 

L’accreditamento della pista mafiosa

Solo il 17 marzo (all’interno del Decreto legge n. 18 2020, cosiddetto “Cura Italia”) viene varato un provvedimento teso a ridurre il sovraffollamento, che risulterà di scarsa efficacia, dati i numerosi paletti e gli attacchi politico-mediatici ai magistrati di sorveglianza. E solo il 21 marzo il DAP emana una circolare per consentire la possibilità di effettuare video-colloqui (e telefonate oltre i limiti di quelle normalmente consentite e di cui, in ogni caso, non beneficiano tutti i reclusi).

Ma già il 9 marzo alcuni sindacati di polizia, a rivolte ancora in corso o addirittura non iniziate (il maggior numero di carceri comincia le proteste proprio il giorno 9), parlano di «fenomeno tutt’altro che spontaneo» e di «strategia» della criminalità organizzata per «approfittare delle difficoltà causate dell’emergenza Coronavirus».

Il decreto del 17 marzo scatena poi la dura reazione dei PM antimafia che tuonano: «Questi benefici sono stati concessi all’indomani del ricatto allo Stato rappresentato dalla rivolta nelle carceri, voluta e promossa da organizzazioni criminali» e che riusciranno infine a ottenere la testa del capo del DAP, Francesco Basentini, dopo una virulenta campagna stampa da loro stessi promossa contro le “scarcerazioni facili”, ovviamente e al solito inesistenti.

Anche in questa circostanza si è dimostrata la verità di sempre: nell’amministrazione penitenziaria le carriere vengono compromesse non per malgoverno o inefficienza, violazioni di leggi e di regolamenti, ma per insufficiente rigidità nel trattamento dei reclusi o per conflitti con i sindacati autonomi di polizia penitenziaria. Banalmente, se un agente si dimentica di aprire una cella per l’ora d’aria non gli succede alcunché; se fa rientrare in ritardo un recluso dopo il passeggio rischia una sanzione disciplinare. Quella è la logica, quelle le consuetudini, quella la vera “formazione” degli agenti.

La tesi della regia mafiosa delle rivolte viene poi sistematizzata, con pretese di scientificità, nel report Un contagio parallelo – Come la mafia sfrutta la pandemia. La pubblicazione è curata dal Global Initiative against Transnational Organized Crime e rilanciata dal ministero dell’Interno, che ha come ricercatori anche giornalisti e criminologi consulenti dell’antimafia italiana e dello stesso Viminale, i quali hanno intervistato numerosi magistrati e dirigenti delle polizie riguardo le vicende del marzo scorso.

Vale la pena di leggerne alcune parti, per come abilmente sorrette da affermazioni apodittiche, in cui il giornalista riferisce di aver raccolto le interviste di due famosi magistrati il giorno dopo che sarebbero stati minacciati di morte per le loro posizioni sulle rivolte in carcere. O da altre, comodamente coperte dall’anonimato, come quelle di «un ufficiale della polizia penitenziaria», secondo cui «i capi prendono il primo letto, sono quelli che hanno coordinato le rivolte, i secondi e terzi letti cosiddetti, sono stati la manodopera. Quelli che sono morti, non possono più parlare». O quelle di «un investigatore di lungo corso, con specifica esperienza nel mondo delle carceri», che, scrive sempre il ricercatore-giornalista, «delinea il quadro reale: “Le rivolte hanno disegnato anche una precisa mappa delle mafie italiane. […] Sono sicuro che le mafie hanno guidato la rivolta, su questo non ci sono dubbi. Tutto organizzato con precisione. Appena sono cominciate le rivolte, e stiamo parlando di 70 carceri su tutto il territorio nazionale, i parenti dei detenuti erano fuori, come se lo sapessero, anzi lo sapevano. Questo è sicuro. Si sono coordinati e hanno attaccato tutti insieme”».

Non ci dilunghiamo qui a fare un’analisi del linguaggio [le sottolineature sono nostre], la cui capziosità risulta comunque evidente. Eppure, quella chiave di lettura, in assenza di qualsiasi elemento fattuale, né subito né in seguito, è diventata immediatamente una verità indiscutibile riguardo le rivolte, rilanciata dai maggiori quotidiani e programmi televisivi.

Una verità a reti unificate. Estratti di quel report vengono riportati dall’ANSA significativamente nel canale Legalità & Scuola, a intossicare strategicamente sin dalle aule con il giustizialismo e i teoremi le giovani menti in formazione.

Strategia cui collaborano attivamente anche testate come “il Fatto quotidiano” o come Radio Popolare, partner di scuole di formazione antimafia, con docenti universitari specializzati e procure. La lezione che inaugura il quinto ciclo di corsi l’11 gennaio 2021 (dopo una martellante campagna a colpi di spot sulla radio) ha un titolo più che esplicativo degli indirizzi e dell’impronta culturale sottesi: «Dalle rivolte del marzo 2020 alla scarcerazione dei boss: le contraddizioni della cultura progressista».

La cultura progressista, in verità, sembra essersi presto e in maggioranza allineata ai teoremi, ignorando ogni richiesta di verità e preferendo far calare sulla strage di detenuti una spessa coltre di silenzio e omissioni. Come ben ha ricordato, un anno dopo, una voce autorevole e competente come quella di Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica, nonché magistrato di sorveglianza, dichiarando che di quei giorni ricorderà «soprattutto il dramma della politica e dell’intellettualità italiane che, con poche eccezioni, hanno voltato la testa dall’altra parte».

 

Un anno dopo

A un anno di distanza si è infine arrivati a quanto era annunciato dall’inizio: per la locale procura l’inchiesta giudiziaria sui fatti di Modena si spegne in una richiesta di archiviazione. Come annunciavano già da subito, dalle prime ore, vale a dire prima di ogni indagine o autopsia, ministri, procure, giornali, i detenuti si sono suicidati imbottendosi di metadone e farmaci. Non c’è altra verità possibile.

Come tante e troppe volte è avvenuto in Italia, la certificazione ufficiale di morti di persone avvenute mentre erano nelle mani dello Stato è la solita, la più tranquillizzante, la più autoassolutoria. Se proprio non è suicidio, allora sarà stato “malore attivo”.

Anche in questo caso si conferma la regola ferrea. Nessun responsabile. Nessuna negligenza. L’unica colpa è quella dei detenuti, che si sono ribellati e che si sono ingozzati di farmaci. A sostegno di tale conclusione vi sono le autocertificazioni della polizia penitenziaria e dei medici che, pur dipendendo dal sistema sanitario pubblico, si sono dimostrati succubi delle logiche di sicurezza e degli apparati militari.

Ogni commento è superfluo, ancorché amaro. Ma la battaglia per la verità e la giustizia continua, a maggior ragione. Alcune associazioni hanno già annunciato opposizione alla richiesta della procura di Modena. Vedremo cosa decideranno di fare i Garanti.

Noi, naturalmente, continueremo a fare la nostra piccola parte. Consapevoli di come vi sia un dato che accomuna le carceri di ogni luogo e ogni tempo: ovvero che il carcere non solo produce ma è violenza, proprio mentre pretende di esserne risposta.

Violenza più o meno legale, più o meno aperta e diffusa, più o meno irrimediabile. Quando essa viene agita da detenuti, fioccano presto i processi e le condanne: da ultimo, il 12 marzo 2021, con le prime condanne ai detenuti di Venezia, mentre è di fine febbraio la condanna sino a due anni e mezzo di prigione dei primi 17 imputati, detenuti nel carcere di Opera, ma sono molti altri i processi in corso contro decine e decine di altri reclusi accusati per le proteste del marzo scorso.

Viceversa, non risulta sinora alcun imputato per i 13 reclusi morti. Se la violenza promana dalle istituzioni, storicamente, l’impunità è una costante.

Una verità che quasi nessuno più dice. Uno dei motivi ce lo ha spiegato il criminologo Nils Christie, considerato padre nobile dell’abolizionismo penale: «Alcuni di noi lavorano così vicini al potere e alle istituzioni deputate alla punizione da trasformarsi in tecnici della “erogazione della pena”. D’altra parte, la contiguità può diventare un’opportunità per capire meglio come vanno le cose e per svelare la natura del sistema. Il contatto e alcune forme di cooperazione sono in certa misura inevitabili e funzionano in maniera biunivoca: col nostro lavoro, noi possiamo influenzare gli operatori del sistema penale, ma nel momento in cui questi assumono alcune delle nostre prospettive, noi assumiamo alcune delle loro. Ci avviciniamo reciprocamente. Loro sono persone che si occupano di erogare pene, cioè sofferenza, e noi lo rendiamo possibile. Dobbiamo avvicinarci, per vedere. Ma avvicinandoci troppo potremmo diventare ciechi».

A un anno di distanza, viene da pensare che, anche per quanto riguarda la strage del 9 marzo 2020, troppi siano divenuti ciechi e muti.

 

* Articolo di Sergio Segio, dirittiglobali.it



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