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LOS ANGELES. Il lager di Guantanamo è da ormai vent’anni il cimitero della pretesa superiorità morale americana e dell’Occidente. Posto fisicamente fuori dal territorio nazionale, il campo di concentramento offshore è un monumento all’extra legalità impugnata come clava ed alla geopolitica «asimmetrica» del nostro presente. Un palese, plateale sopruso che si collega alla «crudeltà dissuasiva» sull’immigrazione e la negazione dell’asilo ai profughi di guerra – all’esclusione «strategica» dei deboli del mondo.
Luogo topico e rimosso, è stato oggetto di un numero sorprendentemente esiguo di film fra cui ricordiamo Road to Guantanamo di Winterbottom, Camp X Ray di Peter Sattler con Kristen Stewart. Un’altra manciata di film hanno preso a tema il programma di «tortura legale» sdoganato dalla Cia di George Bush, fra cui, lo scorso anno, The Report di Scott Burns (con Adam Driver e Annette Bening) e la serie Amazon Looming Tower con Jeff Daniels e Tahar Rahim, due anni fa.
LO STESSO Rahim (l’attore di Un Prophète di Audiard) torna sullo stesso terreno ad interpretare la storia di Mohamedou Ould Slahi, in The Mauritanian. Nella sua storia bieca, Guantanamo, dove languono sepolti vivi tutt’oggi 40 prigionieri senza accuse formali o prospettive di processo, ha ospitato 780 detenuti di cui ad oggi 731 trasferiti o liberati e 9 deceduti.
Fra i reduci di questa moderna e medievale Guyana – forse nessuno ha il carisma di Slahi, l’ingegnere mauritano rapito dagli Stati uniti mediante extraordinary rendition, nel 2002 detenuto a Guantanamo fino al 2016, divenuto celebre per aver pubblicato nel 2015 un diario di prigionia (Guantanamo Diary) pubblicato pur con pesanti censure dei servizi americani (in Italia edito dalla Piemme). Sempre nel 2015, Slahi era stato oggetto e collaboratore di una performance di Laurie Anderson che proiettava la sua sembianza su una gigantesca poltrona posta al centro della Armory di New York.
Il film che il regista, Kevin Macdonald, definisce «non-politico» flirta effettivamente col buonismo nel raccontare il proprio soggetto umano (Slahi che ha collaborato alla produzione sostiene ad oggi di aver perdonato i carnefici che lo hanno liberato senza mai scagionarlo). Qualcosa ci sarebbe da dire sulla storia incentrata anche sull’avvocato dei diritti civili che assume al sua causa (Nancy Hollander, interpretata da Jodie Foster) e il procuratore militare incaricato di condannarlo ma che si ravvede per scrupolo cristiano (Benedict Cumberbatch). La tentazione pietista è però riscattata in definitiva dallo straordinario personaggio centrale, grazie all’interpretazione di Rahim che restituisce tutto lo spirito e la singolare simpatia del soggetto, ma anche dall’inaudita violenza delle scene di tortura basate sui resoconti raccapriccianti del diario.
Una storia quindi che riporta la luce su un luogo topico della vendetta fatta politica e sull’ingiustizia profonda che rappresenta il lager di Bush che Obama non è riuscito a chiudere, che Trump aveva giurato di non chiudere mai compiacendosi invece di minacciare ripetutamente di morte i detenuti restanti. Ne abbiamo parlato a Jodie Foster.
Perché questo film?
È una storia che andava raccontata, questa odissea straordinaria vissuta da Mohamedou. Rapito dalla sua casa e dalla sua famiglia per 15 anni, portato in diverse prigioni attraverso il mondo per essere interrogato, torturato abusato sessualmente – e attraverso la propria fede e la propria forza umana si è prefisso di non farsi stroncare, riuscendo anzi ad emergere come una persona più caritatevole, vulnerabile, affettuosa e gioiosa. Credo che avremmo tutti molto da imparare da lui, da come ha perdonato i propri aguzzini, come ha tentato perfino di capirli. Voleva sapere chi fossero come individui, perché si fossero arruolati nell’esercito; contrariamente a ciò che gli è stato fatto era disposto ad umanizzarli. Mi è parsa subito una storia importante – e sono stata onorata di interpretare Nancy Hollander.
Cosa rappresenta la storia di Mohamedou Slahi?
È l’esempio stesso della de umanizzazione. Prendere un essere umano e ridurlo alla stregua di un animale, come qualcosa di non meritevole della dignità umana, come un semplice oggetto da cui estrarre informazioni. È qualcosa che ha effetti concreti sul nostro paese, su chi siamo noi. Per questo è necessario un processo di responsabilizzazione, e credo che questo film voglia mostrare chi siamo diventati dopo l’11 settembre, in cosa ci hanno trasformati la paura e il terrore. Mohamedou invece è riuscito a trascendere la paura e il terrore abbiamo gettato su di lui e diventare una persona migliore.
Qual è oggi il peso politico di questa vicenda?
Esistono momenti oscuri della nostra storia ed è importante esaminarli non ripeterli. Gli esempi con mancano, dall’apartheid Jim Crow, seguito alla reconstruction, dopo la guerra civile, alla deportazione di massa dei nativi sul «sentiero delle lacrime» o i campi di concentramento per giapponesi durante la guerra. L’unico modo per sperare di non ripetere la storia è elaborarla, completare un processo di «verità e riconciliazione». Porsi la domanda: come siamo arrivati fin qui? La ragione è che abbiamo risposto con paura e terrore alla paura e al terrore, invece che con le nostre leggi. Questo film è una specie di ode alla democrazia, alla costituzione e allo stato di diritto.
Considerando anche gli eventi delle ultime settimane a Washington è ancora ottimista a riguardo?
Si in fondo sono ottimista, oltre ai capitoli oscuri nella nostra storia c’è anche la capacità di confrontarvisi. Spero sinceramente, ad esempio, che chi ha fatto parte dell’amministrazione Obama – e nessuno è stato un loro sostenitore più fervido di me – ecco spero che vedendo il film magari possa compiere un esame di coscienza. Nonostante la sentenza di scarcerazione ottenuta dagli avvocati di Slahi dopo dieci anni di detenzione, il governo Obama l’ha tenuto in prigionia per cinque anni ancora senza motivazione alcuna. Scioccante e contro la legge – o meglio lo sarebbe stato se non fosse che Guantanamo è stata creata apposta fuori dal territorio nazionale per poter contravvenire sia alle nostre leggi che quelle dei trattati internazionali come la convenzione di Ginevra, per potere ottenere vendetta. Una follia.
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* Fonte: Luca Celada, il manifesto
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