Denis Mukwege. Debellare l’impunità e gli stupri come arma di guerra e di terrore

Denis Mukwege. Debellare l’impunità e gli stupri come arma di guerra e di terrore

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Nel 2018 lei ha ricevuto il premio Nobel per la pace come riconoscimento per il suo impegno incessante a favore delle donne vittime delle violenze più atroci. Come sta evolvendo secondo lei situazione, e il Nobel l’ha aiutata nella sua lotta?

Di recente la sensibilità sulla questione dello stupro come arma di guerra è cresciuta nel mondo. Questo per effetto della situazione nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), che resta molto preoccupante.

Dal 10 dicembre 2018, quando io e Nadia Murad siamo stati insigniti del premio Nobel per la pace a Oslo, a oggi abbiamo assistito a una vera e propria presa di coscienza globale riguardo l’esistenza e la gravità dell’uso della violenza sessuale come arma di guerra e come strategia di esercizio del dominio e di terrore.

Dare visibilità a questo terribile male, così diffuso nella maggior parte dei conflitti moderni era estremamente necessario. E in questo senso il riconoscimento che abbiamo ottenuto è importante, perché il primo passo per affrontare un problema è innanzitutto riconoscere che esista. In passato non era così, spesso silenzio e negazione erano all’ordine del giorno, perciò siamo di fronte a un cambiamento significativo.

Possiamo considerare il premio Nobel come un punto di svolta. In effetti, nel corso della storia, la violenza sessuale nelle situazioni di conflitto è rimasta un crimine invisibile e ignorato, spesso considerato un danno collaterale inevitabile della guerra, e nella maggior parte dei casi assente dai processi penali nazionali e internazionali.

La situazione adesso è cambiata: lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono riconosciuti come una minaccia per la pace e per la sicurezza internazionale dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e sono inseriti nella lista dei crimini internazionali più gravi codificati nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.

Ma questi non sono gli unici progressi a cui abbiamo assistito dopo il premio Nobel.

Il vertice del G7 del 2019 a Biarritz, organizzato dalla presidenza francese, è stato dedicato alle disuguaglianze di genere e si è impegnato a combattere la violenza sessuale sia in tempi di pace che di guerra. L’impegno che le grandi potenze economiche hanno assunto è una forma di riconoscimento del fatto che non si può costruire un mondo di prosperità senza la garanzia del rispetto dei diritti fondamentali delle donne, e senza assicurare la loro piena inclusione e beneficiare del valore aggiunto che essa produce.

Inoltre, la risoluzione 2467 del Consiglio di sicurezza adottata nell’aprile 2019 riconosce che per affrontare e prevenire la violenza sessuale in situazioni di conflitto è necessario mettere al centro le sopravvissute. La risoluzione sottolinea anche la necessità di riconoscere e curare i bambini nati in seguito a stupri e rafforzare i meccanismi di individuazione degli autori e gli istigatori della violenza.

Un significativo passo avanti ha rappresentato anche l’istituzione del Global Survivor Fund, cui l’Unione Europea contribuisce. Il fondo è un meccanismo innovativo: mette al centro le sopravvissute e i sopravvissuti e i loro bisogni e mira a colmare le lacune della giustizia nazionale e internazionale con lo strumento della giustizia riparativa.

Perciò possiamo riconoscere che la nostra lotta per la dignità delle donne è oggi all’ordine del giorno sul piano internazionale, e la questione della violenza sessuale perpetrata in situazioni di guerra sta, finalmente, guadagnando visibilità agli occhi della politica.

Tuttavia, questi progressi non devono oscurare il fatto che la tragedia della violenza sessuale costituisce una vera e propria pandemia, continua a spadroneggiare in tutti i contesti di instabilità e che tuttora prevale un clima di impunità per i crimini sessuali.

Insomma, il Nobel è stato un punto di svolta, ma la lotta per un mondo in cui ogni donna e ogni ragazza abbia il diritto di vivere libera dalla violenza non è finita.

Per quanto riguarda la situazione nella Repubblica Democratica del Congo, si percepisce una certa stanchezza da parte della comunità internazionale, nonostante la situazione umanitaria sia ancora tra le più gravi al mondo, in particolare per quanto riguarda i massacri nella parte orientale del paese. Il numero di sfollati supera i cinque milioni, le nostre istituzioni si vivono una profonda crisi di legittimità e il clima politico è molto volatile e preoccupante.

Per questo noi continuiamo la nostra lotta per dare giustizia ai milioni di vittime della violenza e alle centinaia di migliaia di donne stuprate.

Stiamo lavorando per sensibilizzare gli attori politici, gli operatori economici e i cittadini, per demolire questo sistema, in cui la maggioranza della popolazione di un Paese così ricco di materie prime come la RDC vive in condizioni di estrema povertà.

Continuiamo a chiedere che il commercio delle risorse minerarie sia trasparente e responsabile: è un dono della natura, ma si sta trasformando in una maledizione per le nostre popolazioni, che si ritrovano al centro di un territorio geo-strategico per un’economia globalizzata che mostra poco rispetto dei diritti umani.

Contiamo su alleati forti, come il Parlamento Europeo, perché ci sostengano in questa lotta per un mondo più giusto, più dignitoso e più pacifico.

 

Quali sono secondo lei le principali sfide nella lotta contro la violenza sessuale in Africa, in Europa e nel mondo?

La sfida principale è la lotta all’impunità. È giunto il momento di spostare lo stigma della vergogna dalle spalle delle sopravvissute alle spalle dei carnefici!

Lo stupro e la violenza sessuale commessi in tempo di guerra vengono spesso presentati come i più antichi crimini della storia dell’umanità. Ma se quest’arma ancestrale mantiene oggi tutta la sua crudele attualità è perché è anche uno dei crimini più gravi al mondo, che è sempre rimasto impunito!

Perciò esortiamo la comunità internazionale, le istituzioni e i cittadini a concentrarsi sulla lotta all’impunità, sia a livello nazionale che internazionale, per contribuire a debellare la violenza sessuale come arma di guerra e di terrore.

La giustizia è sia uno strumento preventivo per evitare che i crimini sessuali si ripetano, sia una risposta sociale che deve fissare uno standard, tracciare una linea rossa tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è, tra quello che è permesso e quello che è proibito.

È incoraggiante veder nascere un movimento di liberazione della parola delle sopravvissute, che rompono il silenzio, da sempre l’arma assoluta dei carnefici, e che chiedono giustizia. Ma per le vittime ottenere giustizia rimane un percorso disseminato di ostacoli, a tutti i livelli, e ancora pochissime ottengono giustizia e risarcimenti.

Le prossime riforme legislative devono concentrarsi maggiormente sulle procedure di indagine. Creare sistemi più attenti alle questioni di genere, che aumentino la frequenza delle accuse di stupro e portino a processi più efficaci in situazioni di conflitto come in tempo di pace.

 

Avete creato un ospedale per “ricostruire” letteralmente le donne vittime di stupro. Dopo oltre 20 anni, cosa avete imparato da questa esperienza?

Il modello dello sportello unico, chiamato anche “One Stop Center”, implementato all’ospedale Panzi si è sviluppato gradualmente. L’obiettivo era soddisfare le diverse esigenze delle pazienti in un unico luogo. Innanzitutto, chi arriva deve poter raccontare la sua storia una volta sola, evitando inutili traumi. Le donne vengono poi guidate attraverso un sistema di indicizzazione interno e individualizzato, che offre supporto personalizzato e incentrato sui bisogni della singola persona, inclusi l’assistenza psicologica e medica, il reinserimento economico e sociale e il libero accesso alla giustizia. Il nostro obiettivo è far sì che dopo aver terminato questo percorso di cura olistico le donne possano diventare autonome.

La nostra presa in carico non si limita al periodo di ospedalizzazione, ma continua con l’accompagnamento delle pazienti nel loro ambiente domestico. Attraverso la mediazione e il networking, le squadre mobili della Fondazione Panzi contribuiscono anche, con il decisivo sostegno delle chiese locali e delle ONG, a ricostruire i legami familiari e comunitari sconvolti dalle atrocità subite, partecipando così alla ricostruzione del tessuto sociale e all’integrazione socioeconomica.

L’esperienza ci ha mostrato che, nel processo di cura, è solo dopo essersi riprese dalle ferite psicologiche e fisiche, e una volta che è avviato un reinserimento socioeconomico, che per le vittime di violenza sessuale si pone il tema di chiedere giustizia.

È spesso a questo punto che si assiste alla trasformazione del dolore in forza e della pena in potere: tutto per chiedere giustizia. È a questo punto che la vittima diventa una sopravvissuta e un motore di cambiamento, di sviluppo e di pace.

Le donne diventano così vere leader della comunità e si impegnano non solo a difendere i loro diritti e quelli dei loro figli, ma anche i diritti umani e la dignità di tutti.

La lezione che abbiamo imparato è che anche dopo aver affrontato il peggio, le donne sopravvissute trovano, con un accompagnamento personalizzato e appropriato, enormi risorse per continuare a vivere, per aiutare gli altri e per portare valore aggiunto alla comunità.

 

Lei è stato minacciato di morte dopo aver criticato l’inerzia politica del suo Paese e la collusione di interessi dei suoi leader in conflitti legati allo sfruttamento delle risorse. Qual è la situazione oggi?

In effetti sono stato minacciato e intimidito diverse volte nella mia vita, e sono sfuggito per un pelo a un tentativo di assassinio nell’ottobre 2012. Purtroppo, in quell’occasione è stata uccisa la mia fedele guardia del corpo.

Al momento, continuo a ricevere minacce alla mia incolumità. Vivo ancora in isolamento all’ospedale Panzi, dove lavoro e dove c’è una squadra che vigila sulla mia sicurezza. I miei movimenti sono limitati e sempre sotto scorta.

Nonostante gli sforzi dell’Unione Europea e del Parlamento Europeo per lottare contro il commercio di minerali insanguinati e per incoraggiare un uso più responsabile e trasparente delle risorse minerarie, lo sfruttamento e il commercio illegale delle risorse naturali e minerarie rimane una delle radici dell’instabilità e della violenza che ciclicamente, da decenni, affligge la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo.

È giunto il momento di trasformare i minerali di guerra in minerali per lo sviluppo endogeno del paese e il miglioramento delle condizioni di vita delle persone che vivono in condizioni di estrema povertà.

 

Lei è attivamente coinvolto nella campagna “Stop rape and gender violence”. Come sta andando e cosa vi aspettate di ottenere?

Sosteniamo la campagna internazionale per fermare gli stupri e la violenza di genere nelle situazioni di conflitto e tutte le altre iniziative che mirano ad amplificare le voci dei sopravvissuti, a rompere il silenzio e chiedere giustizia per questi crimini di cui l’umanità intera dovrebbe vergognarsi.

È fondamentale coordinare questi sforzi per rafforzare la prevenzione, la protezione delle vittime e l’accesso alla giustizia.

Siamo anche molto ispirati dal movimento SEMA, che in swahili significa “esprimersi”: una rete di oltre 2.000 sopravvissute alle violenze sessuali legate al conflitto, provenienti da più di 20 paesi.

Liberare le voci di queste donne coraggiose che rompono il silenzio per rivendicare i loro diritti è un atto che dev’essere incoraggiato e sostenuto da sforzi per ottenere giustizia e indicare i responsabili.

Ci auguriamo che questo slancio contribuisca a porre fine al clima di impunità per i crimini sessuali che per troppo tempo ha prevalso.

Tutto ciò è fondamentale, perché la giustizia è uno strumento importante sia per prevenire la violenza sessuale che per completare il lungo processo di guarigione delle vittime.

 

Come pensa che sia possibile perseguire gli autori di crimini come quelli che colpiscono migliaia di donne e bambini, nel suo paese e all’estero? Pensa che l’ONU stia facendo bene il suo lavoro? Da anni nel vostro paese è presente una forza di peacekeeping, la missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo (MONUSCO), come valuta una tale presenza?

La giustizia è un prerequisito per il consolidamento di una pace sostenibile nella regione dei Grandi Laghi. Troppo spesso la pace è stata sacrificata sull’altare degli accordi politici, e in molte parti della RDC non è ancora raggiunta.

Anche se la maggior parte dei responsabili dei crimini sono noti, la RDC rimane un terreno strategico dove vari interessi operano per conservare lo status quo in un clima di corruzione e impunità, e in collusione con alcune élite congolesi attratte dal denaro facile.

Ma le vie della giustizia esistono.

Esattamente dieci anni fa, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) ha pubblicato il Rapporto Mapping, che documenta le più gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale commesse sul territorio della RDC tra il marzo del 1993 e il giugno del 2003.

Il report ha stilato un inventario di 617 crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Se portate davanti a un tribunale competente, alcune delle atrocità documentate dagli esperti ONU potrebbero costituire il profilo del reato di genocidio.

A oggi, nessuna delle raccomandazioni contenute in Mapping è stata attuata. Invitiamo pertanto i funzionari europei eletti a unirsi alla nostra richiesta di mettere in pratica i vari strumenti di giustizia transizionale nella RDC.

Poiché la Corte Penale Internazionale è competente solo per i crimini commessi dopo il luglio 2002, e data la dimensione regionale del conflitto nella RDC, chiediamo alle istituzioni europee di sostenerci nella creazione di una Corte penale internazionale per la Repubblica Democratica del Congo e/o di camere speciali miste, la cui giurisdizione dovrebbe coprire il periodo che va dall’inizio degli anni Novanta a oggi.

Esortiamo inoltre i partner privilegiati della RDC, come l’Unione Europea, a sostenere i processi di ricerca della verità, i programmi di risarcimento e delle autentiche riforme della sicurezza e della giustizia.

Tornando alla presenza delle Nazioni Unite nella RDC, va notato che senza questa presenza oggi il paese non esisterebbe più. Ma se la missione peacekeeping ha reso possibile il mantenimento dei confini della RDC, il suo mandato di protezione dei civili è ovviamente più difficile da attuare. Inoltre, il rapporto con le autorità congolesi non ha reso facile il loro compito, sia sul fronte civile che militare. La malafede delle autorità congolesi che ha caratterizzato l’era dell’ex presidente Kabila, infatti, ha spesso minato gli sforzi delle Nazioni Unite per sostenere la costruzione dello stato di diritto e assicurare la stabilità del Paese, in particolare nell’Est del paese.

Infine, siamo convinti che nessuna pace duratura nella RDC potrà mai essere costruita se si fonderà sull’impunità. Finché i criminali si sentiranno liberi di commettere atrocità senza esserne ritenuti responsabili, continueranno a farlo e rappresenteranno sempre una minaccia per la pace, a scapito della popolazione civile in generale e delle donne e dei bambini in particolare.

Ecco perché oggi, in molte parti del Paese, i criminali rimasti impuniti stanno purtroppo riorganizzando per combattere nuove guerre e perpetrare altra violenza.

 

L’impunità che regna oggi nel mondo, sia per quanto riguarda le autorità pubbliche che le imprese private, è un vero e proprio “cancro” che sta divorando le nostre società a costo della vita dei più vulnerabili. Pensa che la giustizia transnazionale sia un modo per combattere questa impunità?

In effetti, i due cancri dell’Africa, la corruzione e l’impunità, sono gravi ostacoli alla lotta contro la povertà e allo sviluppo sociale ed economico dei paesi del Sud.

Come tutti sanno, non c’è corrotto senza corruttore, e la scala delle responsabilità va estesa non solo a vari livelli, ma anche in vari paesi e in diversi continenti.

Per questo è necessaria maggiore cooperazione giudiziaria, ma anche meccanismi sanzionatori per chi saccheggia le nostre risorse. L’Europa potrebbe prendere di mira diversi uomini d’affari senza scrupoli, privarli dei visti, sequestrare i loro conti bancari sul suolo europeo.

Si devono tracciare linee rosse contro l’inaccettabile, confini che è compito dei politici stabilire e della magistratura far rispettare.

(intervista a cura di Massimo Franchi)

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* Premio Nobel per la Pace 2018, medico, fondatore del Panzi Hospital

Dal 18° Rapporto sui diritti globali – Stato dell’impunità nel mondo 2020, “Il virus contro i diritti”, a cura di Associazione Società INformazione.

L’edizione italiana, Ediesse-Futura editore, in formato cartaceo può essere acquistata anche online: qui
L’edizione internazionale, in lingua inglese, Milieu edizioni, può essere acquistata qui in cartaceo e qui in ebook

 

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ph by Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons – cc-by-sa-3.0, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons



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