Il caso Donald Trump e la resistibile ascesa dell’ultradestra

Il caso Donald Trump e la resistibile ascesa dell’ultradestra

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Riannodando il filo delle trasformazioni, reali o percepite, che hanno fatto seguito in Europa come negli Stati uniti a eventi quali l’11 settembre, la «Grande recessione» del 2008 e la «crisi dei rifugiati» del 2015, lo studioso definisce le coordinate di un fenomeno che ha già cambiato il volto della politica internazionale

Ci sono le tre «crisi» maggiori che le società occidentali hanno affrontato nell’arco degli ultimi vent’anni, e il modo in cui questi movimenti hanno saputo abilmente trarne profitto, alla base dell’ascesa della nuova estrema destra che si è trasformata in molti contesti da realtà marginale e anti-sistema a forza di governo. È riannodando il filo delle trasformazioni, reali o percepite, che hanno fatto seguito in Europa come negli Stati uniti a eventi quali l’11 settembre, la «Grande recessione» del 2008 e la «crisi dei rifugiati» del 2015 che il politologo olandese Cas Mudde definisce in Ultradestra (Luiss University Press, pp. 186, euro 19, prefazione di Caterina Froio, traduzione di Andrea Daniele Signorelli) le coordinate di un fenomeno che ha già cambiato il volto della politica internazionale.

Il politologo Cas Mudde

Tra meno di venti giorni gli Stati Uniti sceglieranno il loro presidente. Pur avendo un profilo più articolato, Donald Trump incarna perfettamente l’esempio di come le idee dell’estrema destra siano arrivate a conquistare il cuore delle nostre società e talvolta il potere. Come è accaduto?
Il caso di Trump non rappresenta solo una conferma di questa tendenza globale, ma merita una valutazione specifica. La sua è in parte anche un’eccezione e il segno di una grande fortuna. Mi spiego. Era una figura estremamente familiare nel Paese già prima della sua candidatura, inoltre si è dovuto misurare (a destra) con dei rivali molto deboli, è stato sottovalutato dai suoi avversari (nel Partito democratico) e sostenuto, anche involontariamente, dai media mainstream, interessati ai buoni ascolti delle sue performance in tv più che al suo programma politico. Ha ottenuto la candidatura per il partito che avrebbe probabilmente vinto in ogni caso le elezioni, i repubblicani, e si è scontrato con una candidata che per vari motivi, non ultimo il sessismo di una parte degli elettori, era molto debole e perfetta per il tipo di attacchi che le avrebbe riservato Trump. Infine, per arrivare alla Casa Bianca ha approfittato della mobilitazione dell’estrema destra che era iniziata sulla scia della «Grande recessione» del 2008 sia all’interno del Partito Repubblicano che con movimenti come quello del Tea Party.

A differenza di Orbán in Ungheria, Trump non è riuscito a modificare il quadro istituzionale. Ma le nomine che ha fatto, non solo alla Corte suprema, peseranno a lungo sugli Stati Uniti

Dove le destre estreme si sono affermate nel voto o hanno avuto accesso al potere, anche in Europa, si ha l’impressione che sia avvenuto un cambiamento che sarà difficile sanare anche se le future elezioni dovessero dare esiti diversi. Accadrà anche negli Usa?
In realtà, a differenza di Viktor Orbán che governa l’Ungheria dal 2010 e ha trasformato radicalmente il sistema, riuscendo a far approvare anche una nuova costituzione, il mandato di Donald Trump ha avuto finora uno scarso effetto sul quadro istituzionale della democrazia statunitense. Detto questo, ha indebolito il potere dello Stato tagliando i fondi a molti settori e aprendo ai privati in altri. Ma, soprattutto, ha nominato un numero enorme di giudici federali, a tutti i livelli e non solo alla Corte suprema: qualcosa che avrà un impatto fortissimo sulla politica statunitense per i decenni a venire. Credo sarà questa la principale eredità dell’era Trump, se dovesse vincere Biden. La maggior parte delle altre modifiche introdotte nel frattempo sono solo di natura «cosmetica».

Al di là dei casi nazionali che certamente contribuiscono al loro successo grazie a specifici elementi, si possono individuare delle coordinate generali che caratterizzano, pur nelle differenze, l’insieme di questi partiti e movimenti?
L’ascesa dell’estrema destra sta beneficiando sia di trasformazioni strutturali più ampie che di fattori più incidentali e nazionali. Come conseguenza della rivoluzione postindustriale, all’incirca dalla fine degli anni Sessanta i legami tra cittadini e partiti, o le sottoculture di riferimento, sono andati diminuendo, insieme al declino della working class e alla secolarizzazione delle società. Di conseguenza, l’elettorato ha cominciato a guardare anche ad altre forze, rispetto ai partiti tradizionali, comprese quelle riconducibili all’estrema destra. Non solo. L’egemonia neoliberale che si è andata imponendo ha aumentato le disuguaglianze economiche e ha contribuito a depoliticizzare le questioni socioeconomiche, a vantaggio di quelle di natura socioculturale. Un clima nel quale la risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre ha poi contribuito a integrare a tutti gli effetti le posizioni anti-immigrazione e l’islamofobia nel dibattito politico ufficiale. Aggiungete a tutto ciò la trasformazione dei media tradizionali e l’ascesa dei social, e avrete un ambiente decisamente favorevole alla crescita dei partiti dell’estrema destra, in particolare quelli con leader telegenici e buone competenze sui social. Come Matteo Salvini.

Si è detto che queste forze avrebbero «sfondato a sinistra», ma se è vero che dalla Rust Belt statunitense agli ex quartieri operai italiani o francesi, hanno spesso conquistato l’elettorato popolare, sono i partiti conservatori ad aver sofferto di più per la loro affermazione, fino a modificare in senso sempre più radicale loro posizioni, ad esempio sui migranti.
Credo sia almeno in parte un malinteso l’idea che l’ascesa dell’estrema destra sia direttamente correlata al declino della sinistra e che quest’ultimo abbia causato il primo o viceversa. Sebbene sia vero che in molti paesi gli appartenenti alla classe lavoratrice bianca, e in particolare gli uomini, votano in gran numero per i partiti di estrema destra, costituiscono pur sempre una minoranza dell’elettorato totale di queste forze. Inoltre, molti di questi lavoratori bianchi non provengono dalle fila del centro o della sinistra, ma dai partiti della destra tradizionale o dal non-voto. Quanto alle forze conservatrici o di centro-destra, che in effetti hanno ceduto molto sul terreno ideologico all’estrema destra, non hanno perso troppi elettori o hanno compensato in parte le perdite attirando elettori dal centro-sinistra.

Questi estremisti non vogliono più sostituire la democrazia con una dittatura, ma con un sistema democratico dominato dalla maggioranza etnica: uno Stato di apartheid

Il profilo ideologico dei maggiori partiti dell’estrema destra attuale appare più «soft» rispetto a quello delle forze che li hanno preceduti e che esprimevano una qualche continuità con la storia del Novecento e le culture fasciste tout-court. Con cosa abbiamo a che fare oggi?
Partiti come Fratelli d’Italia, il Rassemblement National di Marine Le Pen o il Vlaams Belang fiammingo hanno alcuni legami ideologici con i movimenti fascisti dell’inizio del Ventesimo secolo. Ma altri, come Alternative für Deutschland, il Partito del popolo danese, il Forum per la Democrazia olandese non li hanno. Nella maggior parte dei casi, l’estrema destra contemporanea, non è neofascista, non è immersa nel passato, ma rappresenta un fenomeno profondamente moderno. Appaiono più soft perché credono nella democrazia, anche se non tanto nella democrazia liberale: non vogliono sostituire la democrazia con una dittatura ma con una tecnocrazia, un sistema democratico dominato dalla maggioranza etnica, cioè uno Stato di apartheid. Questo è fondamentalmente diverso dal regime fascista che escludeva le minoranze, ma non concesse la democrazia neppure alla maggioranza.

C’è un tema che si va imponendo nella riflessione sulle nuove destre, vale a dire il crescente legame tra il genere e quest’area politica. Si va dal «suprematismo maschile» inscritto nel suprematismo bianco, al ruolo delle donne, anche come leader, in formazioni di questo tipo. Come si conciliano tali tendenze in apparenza contraddittorie?
Per molti partiti di estrema destra il genere resta una questione secondaria, correlata alle loro caratteristiche ideologiche chiave, ovvero nativismo, autoritarismo e populismo. Ma le posizioni sul tema riflettono anche quanto accade nelle società in cui operano. Quindi, mentre il machismo e la misoginia sono abbastanza diffusi nell’estrema destra dell’Europa orientale, sono rare in quella del Nord. In altre parole, le opinioni di genere riflettono sia il profilo ideologico di queste forze che la cultura nazionale. Ma anche in paesi che si considerano emancipati – più di quanto non lo siano in realtà – come l’Olanda, dove si voterà la prossima primavera, una forza di estrema destra come il Forum per la Democrazia si segnala per la sua virulenta misoginia. Il leader del partito, Thierry Baudet e molti dei suoi dirigenti hanno meno di quarant’anni e sono cresciuti in una società in cui gli uomini competono con le donne e spesso perdono, soprattutto all’università. Quindi, considerano le donne «potenti» e come obiettivi legittimi di attacchi politici, mentre il sessismo classico vede le donne come deboli, meritevoli di protezione da parte degli uomini, «forti».

Nel laboratorio dell’estremismo

Tra i maggiori esperti dell’estrema destra e del populismo reazionario, il politologo olandese Cas Mudde insegna all’Università della Georgia e al Center for Research on Extremism dell’Università di Oslo. Autore di una decina di opere di riferimento su questi temi, nel nostro paese sono stati pubblicati «Populismo. Una breve introduzione», firmato insieme a Cristóbal Rovira Kaltwasser (Mimesis) e ora «Ultradestra. Radicali ed estremisti dall’antagonismo al potere», un testo che rilegge questo fenomeno in termini globali, dall’America di Trump all’India di Modi, passando ovviamente per l’Europa, per definire le coordinate organizzative, politiche e culturali di una nuova estrema destra a vocazione maggioritaria

* Fonte: Guido Caldiron, il manifesto



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