Noam Chomsky: «L’America fondata sulla schiavitù, i neri repressi da 400 anni»

Noam Chomsky: «L’America fondata sulla schiavitù, i neri repressi da 400 anni»

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Gli Stati uniti bruciano. In diverse città viene imposto il coprifuoco, le rivolte per le strade non accennano a diminuire, coinvolgendo sempre di più anche la popolazione bianca, e l’esercito è pronto a intervenire. Intanto le parole e le azioni del governo, e di Trump in particolare (la sua ultima uscita sui social – «Law and Order» – sembra il titolo di un telefilm), non sembrano voler trovare la conciliazione con una società già esasperata dall’emergenza sanitaria, da disoccupazione e disuguaglianze.

Per capire quanto siano antiche le radici delle rivolte che occupano oggi le pagine dei giornali di tutto il mondo abbiamo fatto qualche domanda al professor Noam Chomsky, tra i massimi esperti mondiali di politica e società americana.

Le proteste seguite all’uccisione di George Floyd si sono trasformate in rivolte, propagate da Minneapolis a tutti gli Usa. Nel frattempo, il Pentagono ha esortato la polizia militare a tenersi pronta a intervenire. Professor Chomsky, che cosa sta succedendo negli Stati uniti? C’è qualcosa di più profondo dietro le proteste contro il razzismo e l’abuso di potere della polizia bianca?

Di più profondo ci sono 400 anni di brutale repressione. Dapprima, il più violento sistema di schiavismo della storia, che ha costituito la base della crescita economica e della prosperità degli Stati uniti (e dell’Inghilterra). A questa fase sono seguiti dieci anni di libertà in cui la popolazione nera ha potuto partecipare a tutti gli effetti alla società e lo ha fatto con grande successo. Dopodiché è nato un patto tra Nord e Sud che ha di fatto concesso agli Stati ex schiavisti l’autorità di fare ciò che volevano. E ciò che hanno fatto è stato di criminalizzare la vita dei neri, istituendo uno «schiavismo con un altro nome», come recita il titolo di uno dei libri più autorevoli in materia (Douglas A. Blackmon, Slavery by other name. The Re-Enslavement of Black Americans from the Civil War to World War II, Anchor Books, 2008). Questa fase è durata all’incirca fino alla Seconda Guerra mondiale, quando poi è sorta la necessità di reperire manodopera. È cominciato allora un periodo di relativa libertà, per quanto ostacolato da leggi razziali così estremiste che persino i nazisti in quel periodo non le presero in considerazione e leggi federali che prescrivevano la segregazione nelle politiche abitative sussidiate dal governo attuate dopo la guerra. In più, ovviamente, in quegli anni i neri (e le donne) erano esclusi dall’istruzione universitaria gratuita garantita ai veterani. Successivamente è sorta una nuova ondata di criminalizzazione della vita dei neri, facilmente documentabile. Quanto al razzismo, persiste ancora oggi, benché meno dilagante di prima. E quando si manifesta, come nel caso dell’omicidio di Floyd, ecco che esplode la protesta, cui ha aderito in questo caso anche buona parte dei bianchi. Ciò significa che in alcuni settori della popolazione sono stati fatti seri passi avanti nel superamento di questa terribile piaga.

Noam Chomsky

Pensa che la pandemia abbia avuto un ruolo nelle proteste? È servita a far venire ancora di più allo scoperto le disuguaglianze e i problemi di giustizia sociale del paese? O ha fatto esplodere una pentola che ribolliva da tempo?

Certamente la pandemia ha evidenziato alcuni di questi problemi. Il tasso di mortalità per Covid-19 tra le persone nere, per esempio, è tre volte superiore a quello tra i bianchi. Trump, la cui malignità non ha limiti, ha approfittato dell’emergenza sanitaria per ridurre le norme volte a limitare l’inquinamento atmosferico, che ha effetti devastanti sulle malattie respiratorie legate a questa pandemia. La stessa stampa economica stima che a causa di queste scelte potrebbero morire decine di migliaia di persone, per lo più tra le comunità nere, che possono permettersi di vivere solo nelle aree più inquinate («How Trump’s EPA Is Making Covid-19 More Deadly», Bloomberg, 4 maggio 2020). Il modo in cui questi fatti influenzeranno l’opinione pubblica dipenderà da quanto essi saranno occultati dall’apologetica razzista.

Professore, ci sono circostanze, come quelle cui assistiamo in questi giorni negli Stati uniti, in cui la violenza da parte di una popolazione esasperata può essere giustificata?

Di sicuro può essere compresa. Più che altro, l’esperienza ci insegna che non è una scelta saggia: di solito ha come unico risultato di incrementare il sostegno dell’opinione pubblica verso una repressione ancora più dura.

Una delle prime reazioni di Trump alle proteste è stato un tweet poi oscurato: «Quando comincia il saccheggio, si comincia a sparare». Può spiegarci perché questa frase ha avuto un impatto così forte sulla società americana? Ritiene che quel «peccato originale che macchia ancora oggi la nostra nazione» (come ha detto Joe Biden) sia oggi aggravato dalla presenza di Trump? La sua retorica infuocata serve a farlo risalire nei sondaggi che, almeno a oggi, danno Biden in vantaggio?

In quel tweet Trump stava citando la frase pronunciata cinquant’anni fa da un comandante della polizia della Florida (Walter E. Headley, capo della polizia di Miami, ndr) per spiegare come avrebbe reagito lui alle manifestazioni antirazziste. Il senso della dichiarazione di Trump era chiaro ma, date le reazioni indignate, ha mentito spiegando che voleva dire che sarebbero stati i «saccheggiatori» ad aprire il fuoco. Di sicuro Trump ha fatto di tutto per ingrandire quella «macchia», rivolgendosi a quei suprematisti bianchi che fanno parte della sua base elettorale. Difficile prevedere però quanto sarà profondo l’impatto popolare.

Che cosa ne pensa della reazione dei liberal? Quello che sta accadendo in questi giorni ha qualcosa da insegnare a loro e allo stesso Biden?

Di sicuro dovrebbe. Resta da vedere se lo farà effettivamente.

Ha fatto riferimento alla «criminalizzazione della vita dei neri», fenomeno di cui parla spesso nei suoi libri. Ce ne spiega l’evoluzione e il modo in cui continua ad agire nella società ed economia americane?

La paternità di quell’espressione non è mia. Viene usata spesso negli studi sulla società americana. Negli Stati ex schiavisti della fine del XIX secolo si trattava di una politica premeditata. Se un nero se ne stava in piedi per la strada, poteva essere fermato per vagabondaggio, gli poteva essere comminata una multa che non avrebbe pagato e sarebbe così finito in prigione. Una volta lì, sarebbe stato messo a disposizione delle aziende in quanto lavoratore ideale: disciplinato, nessuna protesta, costi quasi pari a zero. Questa strategia ha contribuito enormemente alla rivoluzione industriale dell’epoca, così come all’agribusiness. La seconda ondata di criminalizzazione ha preso slancio con Ronald Reagan. Nel 1980, quando si insediò alla presidenza, il tasso di incarcerazione rientrava nella media europea. Da allora ha subito un’impennata, attestandosi ben al di sopra dell’Europa. Le incarcerazioni coinvolgono in maniera sproporzionata i neri. È in parte il risultato della guerra alla droga e in parte è riconducibile a una maggiore criminalità tra le persone nere. Quest’ultimo dato è spesso evidenziato dall’apologetica razzista, senza però domandarsi perché tale criminalità sia maggiore tra i neri. In realtà, è tipico delle comunità oppresse. Ma il caso delle persone di colore è indubbiamente il più grave.

* Fonte: Valentina Nicolì,  il manifesto



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