Coronavirus. I numeri da guerra della Lombardia, Fontana contro i milanesi
MILANO. Quelli lombardi sono numeri da guerra vera. Nelle ultime 24 ore i decessi con Coronavirus sono stati 319, numeri che spingono il totale dei morti regionali a 1.959. Sono sempre le province di Bergamo e Brescia a registrare il numero più alto di positivi, ma ora è massima allerta anche sul numero crescente, ma senza picchi, a Milano e sugli ospedali milanesi che nei prossimi giorni dovranno accogliere ancora più pazienti di quanto già non stiano già facendo se, come è probabile, i posti nelle strutture della bergamasca e del bresciano si satureranno.
Nella bergamasca ci sono stati 93 decessi in un giorno, 553 i morti totali. Nel bresciano 450, 76 in un giorno. Numeri sottostimati, dicono più fonti, perché a molti non viene fatto il tampone. Lo ha detto anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori: il conto vero dei morti «è più alto di quello ufficiale perché ci sono persone che non riescono ad essere portate in ospedale» e a cui non viene fatto il tampone.
È questo quello che sta succedendo in alcuni ospedali: non riescono più ad accogliere tutti e i malati meno gravi restano a casa a curarsi l’infiammazione da soli. Ci sono comuni nella bergamasca e nel bresciano dove i morti giornalieri sono di molto più alti della normale media in un qualsiasi momento dell’anno, ma solo una parte di questi decessi è stato classificato come Covid.
Se il numero di contagi non si riduce «tra poco non saremo più in grado di dare una risposta a chi si ammala» ha detto il presidente lombardo Attilio Fontana che ieri ha prospettato misure ancora più restrittive di quelle in vigore se la curva dei positivi non si stabilizzerà. «Tutti i giorni rifaccio l’appello, finora lo sto dicendo in modo educato, tra un po’ si dovrà cambiare il tono perché se non lo capite con le buone bisogna essere un pochettino più aggressivi nel farlo capire» ha detto Fontana.
«Non dovete uscire, dovete stare a casa, purtroppo i numeri del contagio non si riducono».
In questi giorni sono rimbalzate sui social e sui giornali le foto di chi corre sulle piste ciclabili o fa sport all’aperto, oppure porta il cane nelle poche aree verdi rimaste aperte. Ma anche le foto della metropolitana di Milano affollata negli orari di punta. Tra le sette e le nove di mattina però chi prende la metropolitana sta andando a lavorare, sono quella parte di persone che stanno continuando a lavorare perché non a casa per decreto.
A loro si sommano corrieri, fattorini, riders che in una città come Milano rappresentano un discreto numero di lavoratori. Dalla giunta regionale hanno diffuso anche i dati sugli spostamenti monitorati dalle compagnie telefoniche attraverso gli spostamenti con le celle. Il 40 per cento delle persone avrebbe compiuto spostamenti oltre i 300 metri. Una dato quantitativo che non tiene conto dei motivi dello spostamento: lavoro, spesa, necessità.
«Nessuno controlla come il Grande Fratello» ha detto l’assessore alla sanità Gallera. «C’è un’applicazione che le grandi compagnie telefoniche hanno messo a disposizione per vedere in maniera aggregata e anonima il flusso».
Tra chi si sta ammalando ci sono sempre più medici, infermieri, personale dell’assistenza agli anziani. A loro, se non gravemente sintomatici, non viene fatto il tampone e possono quindi diffondere il virus lavorando.
«Trovo inaccettabile che al personale sanitario e ai medici di base non venga fatto il tampone da parte della nostra sanità» ha detto il sindaco di Milano Giuseppe Sala. L’assessore lombardo Gallera si è difeso: «la Lombardia si è sempre mossa secondo le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità.
Gli operatori dei nostri ospedali non fanno tutti il tampone, lo fanno solo se contatti diretti di un paziente positivo e se sono positivi poi ovviamente stanno a casa».
* Fonte: Roberto Maggioni, il manifesto
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