Colombia. Ex combattente FARC:«Giustizia o le multinazionali avanzeranno»
NUEVA VIDA (COLOMBIA). Nell’anniversario della «Operaciòn Genesis», lo sfollamento forzato per mano di esercito e paramilitari nel ’97 per cui lo Stato colombiano – con una sentenza storica – è stato condannato nel 2013 dalla Corte Interamericana Ddhh, con associazioni delle vittime, organizzazioni internazionali, giornalisti, leader e lideressas comunitari e la Commissione di Justicia y Paz cerchiamo di raggiungere la Zona Umanitaria Nueva Vida.
Occorre attraversare il braccio di mare del Golfo di Urabà, poi risalire il fiume Cacarica, nel bacino del Bajo Atrato, regione del Chocò. Le nostre cinque lance vengono bloccate dalle motovedette dell’esercito in mare aperto, non vogliono farci passare e ci lasciano cuocere sotto il sole per tre ore.
La pressione delle organizzazioni per i diritti umani si fa sentire e la Fuerza Naval è costretta a farci proseguire, ma siamo di nuovo fermati e sottoposti a una perquisizione.
Le rive del Rio Cacarica sono costellate di palafitte di legno, piccoli caserios di comunità, per lo più afrocolombiane. Ci chiedono di non fotografare, non è sicuro. Risaliamo, stavolta in canoa, per stretti canali nel pieno della foresta, che poco dopo dobbiamo attraversare a piedi.
Quando arriviamo a Nueva Vida, di sera, militari stazionano all’entrata della comunità. «Ci sono anche i paramilitari», ci spiega chi ci accompagna. Stanno apertamente insieme all’esercito.
Lì incontriamo Ubaldo Zuñiga alias Pablo Atrato, ex comandante del fronte 57 delle Farc, oggi membro dell’omonimo partito. Lui in queste zone ha combattuto per vent’anni, da qui il suo nome di battaglia: «La gente è prigioniera nel proprio territorio – ci dice – In Cacarica sono 5/600 gli uomini delle Agc, in Chocò 3mila. Lo Stato sono loro, al servizio del modello estrattivista del governo. I narcos vengono usati contro la gente per sfollarla».
Gli ex combattenti Farc sono oggetto di una rappresaglia durissima (secondo Indepaz sono 174 quelli uccisi dall’accordo di pace, 13 solo quest’anno) e anche Ubaldo ha subito attentati: «Non stanno rispettando gli accordi presi all’Avana che avevano la redistribuzione della terra al centro, sia per le comunità che per noi guerriglieri, oggi impegnati soprattutto in attività agricole e cooperativismo. Di 250 richieste avanzate per progetti collettivi, visto che la nostra visione politica era ed è basata sulla gestione partecipata e anticapitalista, ne sono stati approvati 49. Ma la gente resiste».
Il prezzo però è molto alto e l’esiguo numero di deputati ottenuto dal partito delle Farc, nato dopo la consegna delle armi nel 2017, non facilita l’avanzare del progetto dell’ex guerriglia: «Anche se il processo di pace è il meglio che ci poteva accadere – insiste Ubaldo – la naturale evoluzione del nostro progetto politico».
L’ex guerriglia ha però ripreso le armi con Ivan Marquez, che l’estate scorsa ha annunciato l’avvio della Segunda Marquetalia, il luogo dove storicamente nacquero le Farc: «Non li giudico – dice – vista la situazione di inadempienza dello Stato. Alcuni compagni, anche se convinti della necessità di lasciare le armi, sono stati effettivamente costretti a tornare sulle montagne».
Poi c’è l’Eln, che non ha accettato la pace: «Gli elenos hanno una struttura federale senza un coordinamento centrale. Questo gli espone al pericolo di infiltrati, vedasi l’attentato dell’anno scorso a Bogotà (43 cadetti della scuola di polizia uccisi da un’autobomba, attentato rivendicato dall’Eln)».
Il governo continua a negare la persecuzione contro gli ex combattenti: «Dobbiamo prendere una posizione più forte. Sia nel Congresso, che a livello internazionale. Dobbiamo coordinarci fra di noi. Perché la mattanza dei nostri compagni, ammazzati come cani nelle strade, senza nessun onore, deve fermarsi, sennò finiremo come la Union Patriotica, sterminata negli anni ’80 (5mila morti ammazzati). Noi avevamo un progetto, una visione sociale, e il processo di pace è la nostra occasione per poterlo mettere in pratica, prima che le multinazionali si mangino il nostro Paese, sulla pelle della gente».
* Fonte: Francesca Caprini, il manifesto
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