Turchia. Assoluzione per le proteste di Gezi Park: «non fu un golpe»

Turchia. Assoluzione per le proteste di Gezi Park: «non fu un golpe»

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È esplosa la gioia, dirompente, alla lettura della sentenza nella 30a Corte penale di Istanbul, installata dentro la prigione di massima sicurezza di Silivri. Nessuno si aspettava che uno dei capitoli più neri della giustizia turca si concludesse ieri con un’assoluzione.

O meglio con nove assoluzioni e il crollo di una folle teoria: che il movimento di Gezi Park del maggio-agosto 2013 sia stato parte di un lungo e architettato percorso verso il golpe.

Ieri il tribunale ha assolto dall’accusa di terrorismo nove persone, tra cui l’uomo d’affari e filantropo Osman Kavala, a capo della fondazione culturale Anadolu Kültür e della casa editrice Iletisim (arrestato a fine ottobre 2017, in prigione da 28 mesi), attori, scrittori, avvocati, architetti, giornalisti.

Tutti parte – secondo la procura di Istanbul e le sue oltre 8mila pagine di fascicolo – di «uno scenario pianificato» per scatenare il caos in Turchia: «L’insurrezione di Gezi non è avvenuta per caso – scriveva il procuratore Edip Sahiner – ma è stata condotta in modo sistematico e pianificato; anche se presentata come protesta innocente per i diritti democratici, il suo principale scopo era creare un contesto di caos e disordine per incitare alla ribellione armata contro il governo».

Il primo passo verso il caos, dunque, sarebbe stata proprio la protesta di Gezi, una mobilitazione senza precedenti di tre milioni di persone contro il piano di sostituzione del parco con un centro commerciale e appartamenti di lusso, presto divenuta un’enorme protesta contro la politica neoliberista del governo Akp. In piazza erano scesi turchi di ogni estrazione politica e sociale: comunisti, islamisti, curdi, aleviti, la comunità Lgbqi e gli ultrà, le femministe.

La teoria del «lungo golpe», secondo la procura realizzata con propaganda a mezzo stampa, campagne contro l’importazione di gas lacrimogeni e la formazione dei partecipanti alla disobbedienza civile con special trainer arrivati da fuori, era però frutto del sacco di altri: era stato lo stesso presidente Erdogan nel 2018 ad accusare Kavala di aver usato i soldi di George Soros per finanziare la protesta e dunque il colpo di stato.

Una narrazione che calza a pennello con il post-golpe e l’epurazione di massa: oltre 80mila arrestati e 150mila militari, poliziotti, dipendenti pubblici e privati licenziati. Tra loro anche giudici e magistrati, sostituiti da figure molto vicine al partito Akp e imprescindibili nell’ondata di processi e condanne di ogni forma di dissenso e critica.

«Il colpo di stato è una ferita aperta in Turchia, dal punto di vista antropologico – spiega al manifesto il giornalista turco Murat Cinar – che l’Akp usa da anni. Quando i tempi erano maturi, con Gezi, ha cominciato a parlare della minaccia. È un indottrinamento costante».

Per questo le nove assoluzioni di ieri per «mancanza di prove concrete» sono una sorpresa. In primis per gli imputati e i tanti che ieri erano presenti in aula, incapaci di nascondere il sollievo: gli applausi sono esplosi alla lettura della sentenza e sono proseguiti fuori.

Gli altri sette – molti dei quali in auto-esilio all’estero, tra cui l’ex direttore di Cumhuriyet Can Dundar – restano sotto processo, ma su di loro non pesano più mandati d’arresto, tanto che gli avvocati prevedono un’assoluzione.

«Non si può ignorare la forte determinazione nata intorno a Gezi – continua Cinar – La solidarietà internazionale, l’impegno in continuità di avvocati, cittadini, attivisti, partiti politici extraparlamentari. Non esiste una rete simile per altri prigionieri politici, i cui processi passano inosservati. Inoltre il personaggio più importante, Kavala, ha collegamenti con fondazioni internazionali, partiti politici europei e statunitensi. In un finto processo che è una messinscena politica, Ankara usa l’imputato come strumento politico a seconda del bisogno. E così potrebbe essere stato in un momento difficile in cui il governo perde consenso, è ai ferri corti su Cipro con la Grecia, con la Ue e ora con la Russia per Idlib. Ha bisogno di soldi, la crisi economica è spaventosa, non riesce a pagare i mega progetti pubblici lanciati. Deve ricostruirsi alleanze».

Lo scorso dicembre era intervenuta la Corte europea dei Diritti umani (Cedu) del Consiglio d’Europa, di cui la Turchia fa parte, per chiedere il rilascio di Kavala. Su di lui pendeva un ergastolo aggravato (in isolamento e senza possibilità della condizionale), richiesto anche per l’architetta Mucella Yapici e l’attivista Yigit Aksakoglu. Per gli altri la procura chiedeva decenni di prigione, per un totale di 47.520 anni di carcere.

Ieri a Strasburgo si sorrideva: «Accogliamo la sentenza della corte di Istanbul, in linea con il giudizio dello scorso dicembre della Corte europea – ha commentato la segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejcinovic Buric – La libertà di parola e il diritto a organizzare proteste non violente sono diritti umani fondamentali in tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa».

Ma la gioia è durata poco: subito dopo la sentenza la stessa procura ha emesso un nuovo mandato d’arresto per Kavala stavolta per il tentato golpe del 2016. Resta in prigione, come aveva previsto lo stesso Kavala al portale T24. Dietro potrebbe esserci la minaccia della Cedu che a dicembre aveva dato tre mesi ad Ankara per il rilascio del filantropo.

«Suppongo che lo abbiano assolto per non andare contro la Cedu, ma lo trattengono dentro portando avanti l’altro processo finché la Corte non si esprimerà di nuovo. Ci vorrà almeno un anno», conclude Cinar.

È atteso per oggi, invece, il verdetto per 11 difensori dei diritti umani, tra cui membri di Amnesty International Turchia e il suo ex direttore Idli Eser, arrestati nel 2017 con l’accusa di terrorismo. Rischiano 15 anni di prigione a testa.

* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto

ph by Mstyslav Chernov / CC BY-SA (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)



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