Lavoro, in Italia il «gender gap» più alto d’Europa

Lavoro, in Italia il «gender gap» più alto d’Europa

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Le donne che lavorano in Italia sono 9.768.000, appena il 42,1% degli occupati complessivi. Il tasso di attività femminile al 56,2% ci posiziona all’ultimo posto in Europa, molto lontani dalla Svezia che raggiunge invece l’81,2%. Lontane dalle donne europee ma anche dagli uomini italiani, il cui tasso di attività è del 75,1%. Indietro anche nel tasso di occupazione che, nella fascia di età 15-64 anni, è del 49,5% per le donne contro il 67,6% degli uomini italiani. In Europa il tasso di occupazione femminile è peggiore solo in Grecia. Sono i dati diffusi ieri dal rapporto Censis sulle donne e il gender gap sul lavoro.

ALLE PIÙ GIOVANI va anche peggio. Nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione in Italia è pari all’11,8% per le donne e al 9,7% per gli uomini. Ma nella fascia tra 15 e 24 anni si arriva al 34,8%, mentre per i maschi si ferma al 30,4%. Abissale la distanza dall’Europa, dove il tasso medio di disoccupazione giovanile per le donne è del 14,5%. In Germania scende al 5,1%, nel Regno Unito al 10,3%, in Francia è pari al 20%. Ancora una volta, fa peggio solo la Grecia (43,9%). Neppure studiare è sufficiente per fare carriera. Le manager in Italia sono solo il 27% (in Europa il 33,9%). Non solo le donne sono sottorappresentate nelle posizioni apicali, ma spesso svolgono mansioni per cui sarebbe sufficiente un titolo di studio più basso. Così si diffondono gli stereotipi: il 48,2% degli italiani è convinto che le donne, per raggiungere gli stessi traguardi degli uomini, debbano studiare di più.

AVERE UNA FAMIGLIA e lavorare per molte italiane è difficile o incompatibile. Il 32,4% delle occupate ha un impiego part time mentre gli uomini sono solo l’8,5%. Il lavoro a tempo parziale è subito per mancanza di alternative da circa 2 milioni di lavoratrici (il 60,2%). Del resto, il 63,5% degli italiani pensa che sia opportuno che una donna sacrifichi la carriera per la famiglia. Poi ci sono quasi 6 milioni di italiane che hanno figli minori e lavorano: 2,4 milioni sono capofamiglia e 2 milioni hanno almeno tre figli minori, cioè sono in situazioni economiche di necessità. Tra le occupate con almeno tre figli, solo 171mila (l’8,5%) sono dirigenti, quadri o imprenditrici.

Percorsi lavorativi precari e carriere peggiori determinano pensioni più basse. Nel 2017 le donne che percepivano una pensione da lavoro erano più di 5 milioni, con un importo medio annuo di 17.560 euro. Per i quasi 6 milioni di pensionati uomini l’importo medio era di 23.975 euro.

LA DIPENDENZA ECONOMICA delle donne spesso è una componente della violenza subita tra le mura domestiche: «È una forma di assoggettamento di cui si parla poco ma altrettanto grave» spiega Simona Lanzoni, vicepresidente della fondazione Pangea che da un anno gestisce lo sportello «Mia economia» con l’avvio del progetto Reama, la rete di mutuo aiuto per le donne che subiscono violenza. L’impossibilità di sostenersi colpisce le donne di ogni età e di ogni ceto sociale e le porta a indebitamento, restrizione dei consumi fino nei casi estremi agli stenti. Privazioni che spesso si estendono ai figli. E, naturalmente, anche l’impossibilità di pagare un avvocato per difendersi durante il divorzio. «Questo non solo genera una forma di controllo ma crea anche uno stato di soggezione – prosegue Lanzoni -. La violenza economica è dunque una forma di violenza nascosta perché non porta segni evidenti sul corpo ma lentamente logora le donne, rendendole dipendenti e impedendo loro di andare via di casa».

Le donne che si sono presentate allo sportello hanno riconosciuto di aver vissuto anche altre forme di soprusi come stalking, violenza fisica, sessuale e soprattutto psicologica: «La consapevolezza rispetto alla violenza economica arriva strada facendo – conclude Lanzoni – in un complicato percorso di presa di coscienza del vuoto che il partner ha creato intorno, magari allontanando la compagna dal lavoro per badare alla famiglia. Sono le donne a raccontarci come hanno iniziato lentamente a sentirsi sopraffatte, prima psicologicamente e poi economicamente, quando l’autore di violenza è entrato nelle loro tasche, nei portafogli, negli stipendi, nei conti correnti, nelle loro eredità, con lo scopo preciso di controllarle».

* Fonte: Adriana Pollice, il manifesto



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