La Consulta, l’ergastolo e la politica
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Di fronte alla sentenza della Consulta sull’ergastolo cosiddetto “ostativo” molti si sono stracciate le vesti, gridando allo scandalo e prevedendo torme di mafiosi presto in libertà. Tra quelli che hanno alzato maggiormente la voce, magistrati già o tuttora in forza alle procure: abituati a rispettare solo le sentenze che danno loro ragione.
Naturalmente, hanno torto e i loro allarmismi sono in evidenza del tutto strumentali e ingiustificati.
Altri hanno salutato la decisione come un ritorno a uno Stato di diritto e un segnale di abbandono della voga forcaiola e giustizialista, che invece continua ad andare per la maggiore: a destra, che in precedenza ne aveva storicamente il copyright, quanto a sinistra, che anche su questo, come sulle politiche liberiste e anti popolari, in questi decenni ha strafatto, volendo soppiantare il primato e riuscendoci abbondantemente. Bastava seguire questa mattina la storica Radio popolare, i cui ascoltatori sono assai rappresentativi di quel percorso culturalmente degenerativo, da tempo intervenuto senza resistenza alcuna.
Anche costoro sbagliano, giacché la sentenza emessa ieri è del tutto insufficiente a restituire davvero umanità e ancoramento costituzionale alle pene perpetue.
Pochi, del resto, hanno annotato che la decisione è stata presa con un solo voto di scarto (otto contro sette), a rimarcare la sua precarietà.
È facile invece pronosticare che al valore simbolico – che è comunque importante e che va riconosciuto – ben difficilmente faranno seguito significativi numeri di ergastolani ostativi che otterranno benefici. I limiti e i paletti posti dalla Consulta sono, infatti, plurimi e robusti. A partire da quel necessario parere delle procure antimafia e antiterrorismo. Procure che, notoriamente e praticamente, sono esattamente quelle che sinora hanno impedito ogni beneficio con la formula di rito del «non poter escludere» collegamenti con la criminalità. Anche nel caso di reclusi da 20 o più anni nell’isolamento del 41 bis e magari appartenenti a sodalizi da tempo disciolti. Ora, certo, il magistrato di sorveglianza, confortato dalla Consulta, a differenza del passato, potrà tenere in minor e non esclusivo conto quei generici e spesso pretestuosi pareri. Ma altrettanto per certo le decisioni favorevoli saranno molto diluite nel tempo e diradate nell’estensione. Anche perché richiederanno un particolare e individuale coraggio del singolo magistrato, il quale se negasse un beneficio dovuto non incorrerebbe in nessuna censura, anzi in quel caso troverebbe soprattutto plauso; mentre sarebbe lapidato sulla pubblica piazza mediatica in caso di errore o di eccessiva disponibilità nella concessione. In carcere ogni beneficio segue percorsi e tempi sempre faticosi, improbabili e accidentati, a differenza dei peggioramenti, che hanno sempre istantanea e generalizzata applicazione.
Affermato il diritto alla pur remota speranza, questo va subito e sempre nutrito, pena il rapido disseccamento. E al riguardo l’ottimismo sarebbe fuori luogo, viste anche le reazioni univoche della politica, del governo e dell’opposizione.
Giova allora ricordare che nel 1989 venne approvato un ordine del giorno alla Camera dei deputati per l’abolizione della pena dell’ergastolo, quello “normale”, ché l’ostativo ancora doveva essere inventato. Allora vi erano circa 400 ergastolani a fronte dei 1.776 attuali e tassi di omicidi, e in genere di criminalità, assai più alti. Il 30 aprile 1998 fu invece l’Aula del Senato ad approvare l’abolizione della pena perpetua e la sua sostituzione con una pena tra i 33 e i 30 anni: 107 votarono a favore, 51 contrari e 8 astenuti, su proposta di legge avanzata da Ersilia Salvato, senatrice di Rifondazione comunista.
Abolire l’ergastolo era allora una «urgente priorità» per il ministro di Giustizia dell’epoca, il comunista cossuttiano Oliviero Diliberto, molto orgoglioso di aver recuperato dagli scantinati del ministero la scrivania del Togliatti Guardasigilli. Al tempo, Diliberto ancora non si era convertito al pactum sceleris con la parte più retriva e corporativa dei sindacati della polizia penitenziaria, che di lì a poco pretesero e da lui prontamente ottennero il licenziamento dell’allora Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, il compianto Sandro Margara, già giudice e magistrato di sorveglianza di altissima competenza e professionalità, accusato di essere troppo umano e soprattutto di voler insidiare i privilegi e un’insensata distribuzione territoriale degli agenti in servizio, per sostituirlo con quel Giancarlo Caselli che oggi critica aspramente la sentenza della Consulta.
In una lettera pubblicata su “l’Unità” del 2 aprile 1999, Margara scrisse a Diliberto: «L’onorevole Gasparri chiedeva il mio licenziamento a ogni piè sospinto: lei c’è riuscito».
Una considerazione che ci aiuta ancora oggi a capire come sia successo che la sinistra italiana, anzi le sinistre italiane si siano suicidate con impressionante determinazione, divenendo man mano spesso più forcaiole delle destre anche estreme.
Da lì bisognerebbe ripartire, non tanto per una ricostruzione dello smarrimento culturale, valoriale e identitario delle sinistre, quanto per la vera battaglia inceppatasi allora: quella dell’abolizione tout court dell’ergastolo, ostativo e non ostativo.
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