Rojava, la finta tregua di Erdogan: «Spaccherò le teste dei curdi»
Ci sono voluti giorni interi per rompere l’assedio umanitario di Sere Kaniye (Ras al-Ain), giorni di richieste di apertura di un corridoio per evacuare i feriti. Ieri pomeriggio i mezzi della Heyva Sor a Kurd, la Mezzaluna rossa curda, ce l’hanno fatta: sono entrati, accompagnati dalla Croce rossa internazionale, nella città che più di altre è il simbolo dell’operazione «Fonte di pace».
Si deve agire in fretta per portare via decine di pazienti dall’ospedale Roj, in trappola come il resto dei civili per cui la fantomatica sospensione dell’offensiva non si è mai materializzata. Vanno portati a Tel Temer, Qamishlo, Hasakeh, fanno sapere fonti mediche del Rojava, unici luoghi al momento parzialmente sicuri, ma prossimi a collassare: Tel Temer e Hasakeh stanno ospitando 100mila sfollati, un terzo del totale, in scuole, moschee, giardini pubblici e case private, ma manca tutto, mancano cibo, acqua, coperte per affrontare le notti d’autunno.
Sono trascorse già 48 ore delle 120 che il presidente turco Erdogan ha «concesso» alle forze di difesa curde per ritirarsi da quella che lui considera la propria zona cuscinetto, un corridoio profondo 30 km dal cantone di Afrin, nel profondo ovest siriano, al confine est con l’Iraq.
Eppure fin da giovedì sera, mentre il vice presidente Usa Pence ad Ankara annunciava con inutile e colpevole orgoglio l’accordo strappato all’alleato, l’artiglieria insisteva nel colpire le comunità lungo la frontiera tra Turchia e Siria del nord.
Di nuovo ieri – dopo i 14 civili uccisi a Sere Kaniye venerdì – gli scontri terrestri non si sono placati: una mappa inviataci dal Rojava Information Center mostra i nove punti di Sere Kaniye dove venerdì notte si è continuato a sparare. In uno di questi, nei quartieri occidentali, alle 1.30 del mattino sono piovute altre bombe. Una durissima offensiva contro la comunità che però non ha ancora piegato la resistenza dei combattenti curdi, arabi, turkmeni e assiri.
Solo ore dopo l’esercito turco ha dato il via libera all’evacuazione dei feriti e alla consegna di medicinali utili a far fronte all’emergenza. Sere Kaniye è irraggiungibile ai mezzi di soccorso e i pressi dell’ospedale, fa sapere il Rci, «sono stati presi di mira dal fuoco turco».
Che opera in modi e forme diversi, tutti in violazione dell’intesa raggiunta appena tre giorni fa: raid dell’aviazione, colpi di mortaio delle milizie islamiste siriane (l’opposizione a Damasco, da anni braccio armato di Ankara) e il dispiegamento di altre forze islamiste che, secondo Mustafa Bali dell’ufficio stampa delle Forze democratiche siriane (Sdf), contano ora anche miliziani dell’Isis. Un video sul suo profilo Twitter ne mostrerebbe alcuni a bordo di pick-up correre veloci lungo la frontiera.
Di foto ne postano anche i miliziani, sorridenti mentre si scattano un selfie con un gruppo di bambini vicino Tal Abyad. Vorrebbero mandare a dire che sì, la popolazione apprezza l’operazione. Foto arricchite dalle dichiarazioni del governo turco che, per bocca del ministro della Difesa Akar, accusa le Sdf di essere responsabili della violazione del cessate il fuoco (unilaterale) con «14 attacchi provocatori in 36 ore».
Ma a tenere accesa la tensione e affievolire le speranze di uno stop all’invasione ci pensa il ràis: ieri Erdogan, parlando dalla provincia turca di Kayseri, ha promesso di «continuare a spaccare le teste» dei combattenti curdi se non si ritireranno dalla safe zone entro martedì sera.
Una data affatto scelta a caso: quel giorno Erdogan incontrerà a Sochi il presidente russo Putin, semi-alleato, venditore di sistemi di difesa aerea e di gas e salvatore della faccia del “sultano” con la formula negoziale di Astana, ma anche principale sponsor del governo siriano. Damasco ha impiegato otto anni a rimettere piede nel nord della Siria e difficilmente accetterà di perderne pezzi a favore del vicino, l’ex amico turco che approfittò della scoppio della guerra civile nel 2011 per lanciarsi in una lunga e poco fruttuosa caccia alla testa di Assad.
Dal vertice sul Mar Nero dipenderà molto del destino del Rojava e della Siria, del confenderalismo democratico e dell’accordo in fieri tra l’amministrazione autonoma e il governo centrale. Sistemi politici e amministrativi che oggi sopportano il peso massimo del secondo esercito della Nato: 300mila sfollati, 677 feriti e 235 civili uccisi (22 bambini), calcola il cantone curdo-siriano di Cizire. Numeri destinati a crescere, avverte: «Ci sono cadaveri ancora sotto le macerie e decine di civili aspettano di essere curati a Sere Kaniye».
E le scuole chiudono: secondo la Commissione per l’Educazione della Federazione del Nord, «810 scuole sono state chiuse per gli attacchi turchi, oltre 86mila studenti non vanno più a scuola e 5.224 insegnanti sono senza lavoro».
***
A Dersim proteste vietate per un mese
Proteste vietate per 30 giorni su ordine del governatorato di Tunceli (Dersim), provincia orientale della Turchia. Lo rende noto l’agenzia indipendente Diken, ripresa dalla curda Ahval: il governatore ha bandito ogni forma di protesta fino al 16 novembre dando come giustificazione le crescenti chiamate alla piazza «di simpatizzanti dei terroristi in reazione all’operazione» turca nel nord della Siria, nel Rojava curdo. Non solo le proteste: sono vietati anche gli assembramenti considerati dall’amministrazione sconvenienti.
Una repressione diffusa che ieri ha colpito anche la giornalista e attivista Nurcan Baysal: all’alba 30-40 poliziotti hanno fatto irruzione nella sua casa a Diyarbakir dopo una serie di post in cui la reporter criticava l’operazione turca.
* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto
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