In Spagna condanne pesantissime ai leader dell’indipendenza catalana
La sentenza. Proteste in tutta la regione. Cariche della polizia ai manifestanti durante il blitz all’aeroporto di Barcellona
BARCELLONA. «Vendetta». È la parola ripetuta dai politici indipendentisti per qualificare la durissima sentenza firmata ieri dai giudici del Tribunale supremo spagnolo contro i 12 leader indipendentisti che nel 2017 organizzarono un referendum illegale. Quasi 100 anni di condanna per i nove in prigione preventiva da due anni, e un delitto di mera «disobbedienza» (senza carcere) per i tre che invece erano a piede libero.
Il reato che i giudici attribuiscono ai nove è quello di sedición, equivalente a una sorta di delitto contro l’ordine pubblico, creato contro le rivolte sociali quando non esisteva il diritto alla protesta. Scartata invece l’accusa di «ribellione» (alla stregua di un colpo di stato). In sostanza, una condanna per proteste generalmente pacifiche. Nonostante questo inquietante avviso per chiunque voglia manifestare in futuro il dissenso in Spagna, pur con le sue condanne spropositate, nei fatti la sentenza è una mazzata contro il governo di Rajoy, Pp, Ciudadanos, per non parlare di Vox (una delle accuse popolari nel processo) e persino contro il giudice istruttore Llarena: non è mai esistito un tentativo di colpo di stato, né un piano violento, non si pretendeva nessuna secessione perché gli accusati, scrivono i giudici, erano consapevoli che manifestazioni, referendum e proteste avevano l’obiettivo di ottenere dal governo un referendum accordato fra le parti sul modello scozzese. In altre parole: le accuse enormi servivano unicamente perché il caso fosse giudicato a Madrid e non a Barcellona, e per sospendere i parlamentari catalani accusati di ribellione come permette la legge.
A ricevere la condanna più dura l’ex vicepresidente catalano e capo politico di Esquerra republicana, Oriol Junqueras: 13 anni di prigione e altrettanti di interdizione dai pubblici uffici. A ciascuno degli altri tre ministri, Raúl Romeva, Dolors Bassa e Jordi Turull, sono stati comminati 12 anni (di carcere e di interdizione). Scendono a 10 e mezzo per altri due ministri, Josep Rull e Joaquim Forn, perché per loro il tribunale non ravvisa l’aggravante della malversazione (che secondo i giudici è associata all’aver organizzato il referendum, anche se non è stato dimostrato che la Generalitat, allora sotto stretto controllo fiscale di Madrid, avesse speso un euro). La ex presidente del Parlament catalano Carme Forcadell viene condannata a ben 11 anni e mezzo, in sostanza solo per aver permesso di votare ai deputati alcune leggi contro il volere del tribunale costituzionale spagnolo. Per i due Jordi, attivisti a capo delle organizzazioni indipendentiste Anc e Òmnium cultural, 9 anni.
L’unico microscopico spiraglio lasciato aperto dai giudici è che se le autorità penitenziarie (che dipendono dal governo catalano) danno l’ok, i condannati potranno tra pochi mesi già usufruire dei benefici penitenziari che permetterebbero loro di lasciare la prigione di giorno. L’Accusa e il Tribunale supremo potrebbero opporsi ma la porta almeno è aperta.
L’obiettivo dichiarato delle difese è arrivare a Strasburgo, al Tribunale dei diritti umani europeo. Ma prima di poter fare ricorso, ci sono ancora due passi: chiedere, allo stesso Tribunale supremo, di annullare il processo per non aver tutelato i diritti degli accusati (delle 500 pagine della sentenza, il Supremo ne ha dedicate ben 170 a scrollarsi questa accusa di dosso); una volta ricevuto un rifiuto, gli avvocati potranno chiedere al Tribunale costituzionale di annullare la sentenza.
Anche qui, blindato politicamente com’è sempre stato in Spagna, non ci si aspettano sorprese: ma potrebbero volerci anni. A questo punto la strada sarebbe spianata per arrivare a Strasburgo dove la probabilità che le autorità spagnole vengano ridicolizzate (come già avvenuto per i mandati di cattura europei per Puigdemont e compagni esuli) è altissima. Oltretutto la sentenza contiene anche errori madornali, come l’affermazione che è «dimostrato dai fatti» che l’ex ministra Bassa ha ordinato di aprire le scuole per far votare il giorno del referendum. Peccato che lei fosse ministra degli affari sociali, e la ministra che si prese la responsabilità dell’apertura delle scuole fosse Clara Ponsatì (ora al sicuro in Scozia). Per lei come per l’ex president catalano, il giudice Llarena, ringalluzzito per la sentenza, ha per la terza volta attivato un ordine di cattura europeo.
Pedro Sánchez, ormai completamente allineato con Pp e Ciudadanos, ha invece fatto un discorso durissimo, in cui ha affermato che le pene bisogna scontarle tutte. Niente indulto, dunque, che in Spagna concede arbitrariamente il governo, e di cui sottovoce si parlava da tempo per compensare l’enormità delle sentenze, soprattutto prima delle elezioni di novembre. Le proteste e gli scioperi continueranno oggi e nei prossimi giorni.Le reazioni alla sentenza non si sono fatte attendere: ieri la Catalogna ha vissuto manifestazioni spontanee, blocchi di strade, autostrade, ferrovie e una concentrazione convocata da «Tsunami democratico» all’aeroporto che ha causato la cancellazione di decine di voli. Lì la polizia, i mossos, hanno caricato decine di volte contro manifestanti e giornalisti.Scontata la protesta del governo catalano per bocca del presidente Quim Torra. Alle voci di dissenso si è aggiunta anche la sindaca di Barcellona Colau che ha parlato di sentenza «ingiusta» e quella di tutti i partiti di sinistra che considerano la sentenza «politica» e insistono che bisogna trovare il modo di far uscire dal carcere i nove.
* Fonte: Luca Tancredi Barone, il manifesto
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