Banche. Draghi lascia in eredità il bazooka: «Qe» senza scadenza

Banche. Draghi lascia in eredità il bazooka: «Qe» senza scadenza

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Il testamento. Trump:«Danneggia le esportazioni Usa». La Bce: «Agiamo solo sulla stabilità dei prezzi»

Prima di lasciare la guida della Banca Centrale Europea all’attuale direttrice del Fondo Monetario Internazionale Mario Draghi ha annunciato ieri di avere reso eterna la politica di allentamento monetario chiamata «quantitative easing» (Qe): 20 miliardi al mese a partire da novembre senza una scadenza e un nuovo taglio al tasso d’interesse sui depositi che le banche lasciano in deposito presso la Bce di 10 punti base da -0,4% a -0,5%. Sono state inoltre prese altre misure a favore delle banche, quelle colpite da uno dei contraccolpi possibili di una simile politica monetaria: le ricadute negative dei tassi ultra bassi sui depositi.

DA QUANDO la Bce ha introdotto il tasso di interesse negativo l’11 giugno 2014 le banche europee hanno preferito lasciare in deposito a Francoforte i loro capitali, pagando la banca centrale, invece di investire le risorse nell’economia reale, prestandole ad esempio alle imprese o alle famiglie. Negli ultimi cinque anni la Bce ha incassato 7,5 miliardi di euro di interessi, una somma che ha corrisposto a un calo del 4,4% degli utili delle banche nel 2018. Ieri la Bce ha previsto l’esenzione dai tassi negativi per le banche che prestano denaro all’economia reale. Questo significa non versare alcun interesse e ridurre l’impatto negativo sui profitti. L’operazione è stata definita da Draghi come «tiering», cioè un sistema «a scalini». È stata elaborata e discussa dalla Bce sin dal 2016, ha destato perplessità e sono ricorrenti i dubbi sulla sua efficacia. Le banche possono anche continuare a pagare la Bce invece di fare il loro mestiere. L’economia di «carta» resta relativamente più redditizia rispetto a quella industriale. È uno dei paradossi di un mondo finanziarizzato e sono stati amplificati dalla generosa politica monetaria.

L’OPZIONE è agganciata a una crescita dell’economia reale che potrebbe non avvenire nell’immediato. In quel momento i tassi potrebbero alzarsi, ma solo allora. «In questi anni abbiamo creato 11 milioni di posti di lavoro e sicuramente anche i cittadini tedeschi hanno beneficiato a lungo e in misura significativa delle nostre misure» ha osservato Draghi. Il «Qe» ha dato un sollievo anche ad altri paesi, come l’Italia, ma con effetti asimmetrici rispetto a quelli descritti dallo stesso banchiere che non ha specificato la qualità del lavoro prodotto in Germania.

L’ETERNIZZAZIONE di una politica presentata nel 2012, l’anno del celebre discorso sul «whatever it takes» [qualsiasi cosa occorra, ndr.] come un’eccezione, è una svolta prevedibile in uno scenario economico che volge nuovamente verso la crisi. Gli obiettivi della Bce sono stati solo parzialmente raggiunti: l’inflazione è all’1,2% e non è aumentata poco sotto il 2%, come richiesto dal mandato della potente banca centrale intenta a garantire solo la stabilità dei prezzi. In più, il rallentamento dell’economia europea è più forte del previsto, come ha ribadito lo stesso Draghi che ha comunicato il taglio della stima per il 2019 dall’1,2% all’1,1%. «La probabilità di una recessione nell’Eurozona è piccola, ma è aumentata» ha aggiunto. In questa valutazione pesa soprattutto il calo dell’economia tedesca che potrebbe toccare lo 0,5% nel 2019, un tasso notevolmente inferiore rispetto agli anni passati, ha sostenuto ieri l’istituto tedesco di ricerca Ifo. A pesare su un’economia orientata sulle esportazioni c’è la guerra commerciale tra gli Usa e la Cina che produce conseguenze a valanga sull’economia italiana in stagnazione. E questo scenario non contempla, ancora, l’ipotesi di una Brexit senza accordo.

«VI RICORDATE quando vi dicevo che tutti gli strumenti erano sul tavolo e che eravamo pronti ad usarli? Bene – ha rivendicato il presidente uscente della Bce – oggi lo abbiamo fatto». Considerate le difficoltà, e i parziali fallimenti del «Qe», anche dentro il consiglio della banca centrale sono aumentati i dissidi. Draghi non li ha nascosti: «Ci sono state maggiori differenze di vedute rispetto all’ampio consenso che si è visto su altre misure del pacchetto di stimoli deciso oggi, Ma in ogni caso non è stato necessario votare». Oltre alle difficoltà ricordate sopra, le tensioni sono dovute anche all’ipotesi di una modifica statutaria della Bce: cambiare l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Su questo potrebbe lavorare la nuova presidenza Lagarde, anche se Draghi ha osservato: «Se cambi un obiettivo che non riesci a raggiungere non è buono per la tua credibilità». Lo stesso, in effetti, potrebbe essere detto per chi, pur non cambiando obiettivi, non riesce a raggiungerli.

DRAGHI LASCERÀ il suo posto il primo novembre evidenziando i limiti di una politica monetaria espansiva. In questi anni i governi europei non l’hanno sostenuta facendo ripartire gli investimenti, prigionieri dei dilemmi tra crescita e stabilità. La critica di Draghi non è mai mancata. L’appello «a una politica di bilancio che dia sostegno alla domanda sarà reiterato anche più spesso in futuro» ha detto. Questo non è un sostegno alla revisione del «patto di stabilità e crescita». La discussione «spetta agli Stati membri e alla Commissione Ue» ha aggiunto.

TRUMP ha attaccato Draghi via twitter. «Sta cercando di deprezzare l’euro contro un dollaro molto forte, danneggiando le esportazioni Usa». Trump ha così polemizzato con la sua banca centrale Fed che ha alzato i tassi. «Abbiamo un mandato a stabilizzare i prezzi, non miriamo ai tassi di cambio» ha risposto Draghi.

* Fonte: Roberto Ciccarelli, il manifesto



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