Con «cinque punti» il Pd apre alla trattativa con Casaleggio e i 5Stelle
Da «pilastri indiscutibili di un possibile perimetro di ricerca», com’erano definiti nella relazione del segretario, sono diventati «presupposti sui quali il Pd intende concentrare la propria iniziativa» nell’ordine del giorno approvato all’unanimità dalla direzione. I cinque punti di Zingaretti hanno perso già in partenza buona parte del loro carattere ultimativo. Il segretario ha almeno chiarito che non possono essere interpretati come il contributo dei democratici a un (nuovo) «contratto di governo» tra Pd e 5 Stelle, semplicemente perché non dovrà esserci alcun contratto. L’asticella che lo scettico Zingaretti è riuscito a tenere alta davanti al suo partito, dove abbondano i trattativisti, è – assieme al no alla riproposizione di Conte – la pretesa che con i grillini bisognerà trovare una «visione comune», non firmare un patto. A prenderla sul serio sarebbe una richiesta impossibile, ma i programmi sono assai più malleabili e interpretabili dei nomi dei ministri. Soprattutto, il fatto che la trattativa abbia una sua base di merito serve a certificare che la trattativa è avviata. E i «cinque punti» sono stati scritti in modo tale da non rappresentare un ostacolo.
«L’impegno e l’appartenenza leale all’Ue per un’Europa profondamente rinnovata» poteva andare male ai 5 Stelle di un po’ di tempo fa, quelli che flirtavano con Farage, ma va benissimo ai 5 Stelle di oggi che hanno lasciato alla Lega la bandiera dell’euroscetticismo e dell’uscita dall’euro. Non per niente Prodi ha incluso i grillini nella sua «maggioranza Ursula» (von der Leyen, che hanno votato). Del resto proprio Conte martedì ha spiegato che i 5 Stelle adesso si ispirano all’«europeismo critico». E così anche un altro punto di Zingaretti, «L’investimento su una diversa stagione dello sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale» – oltre all’errore di concordanza possibile omaggio a Di Maio – potrebbe essere stato ripreso, quasi identico, dal discorso del presidente del Consiglio in senato.
Qualche problema in più poteva esserci a proposito del punto sulle riforme costituzionali. Zingaretti pretende «Il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa incarnata dai valori e dalle regole scolpite nella Carta costituzionale a partire dalla centralità del parlamento». I 5 Stelle pensano invece che sia scoccata l’ora della democrazia diretta (ci hanno battezzato un ministro) e Casaleggio ha spiegato che la democrazia rappresentativa è un cane morto. Ma non sono granitici. Fico per esempio ha illuso tutti con il suo discorso inaugurale in cui ha esaltato proprio la centralità del parlamento, salvo non opporsi mai seriamente a decreti e fiducie. Proprio la pratica suggerisce che non è il caso di attaccarsi agli annunci: Zingaretti infatti fa il suo affondo solo contro la riforma costituzionale che è già impantanata in parlamento, quella sul referendum propositivo. Mentre non nomina per niente la riforma che è a un passo dall’approvazione, fin qui avversata dal Pd: il taglio dei parlamentari. vuol dire che è disposto a parlarne.
Il quarto punto chiede «Una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori fondata sui principi di solidarietà, legalità e sicurezza». E poi trasferisce il grosso delle responsabilità a Bruxelles: bisogna «affermare un pieno e diverso protagonismo dell’Europa su questi temi». È vero che Conte ha dato una delusione a Zingaretti, il segretario aveva chiesto l’autocritica sui decreti sicurezza e ha avuto una rivendicazione. «Nessuna abiura», ha detto il presidente del Consiglio, descrivendo però le politiche del suo governo (o meglio di Salvini) in una maniera tanto falsa quanto vicina alle aspettative di Zingaretti. Ha detto cioè che i porti chiusi sono stati un «dettaglio mediatico», mentre la sua vera azione si è concentrata a livello europeo. Non è poi da trascurare che il segretario del Pd, il partito dell’ex ministro Minniti, abbia voluto inserire il tema della «sicurezza» all’interno del capitolo immigrazione, una premessa che non consente di arrivare a soluzioni troppo lontane da quelle che abbiamo già visto. E poi c’è l’ultimo punto, quello sì una vera richiesta di discontinuità: «Una svolta nelle ricette economiche e sociali… in una chiave redistributiva e di attenzione al lavoro, all’equità sociale». Sarebbe una svolta netta, ma innanzitutto rispetto agli ultimi governi del Pd.
* Fonte: Andrea Fabozzi, IL MANIFESTO
Photo: Vision of Gideon [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]
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