Fine di governo. Conte fa a pezzi Salvini, «e nessuna autocritica»
Mentre il leghista si fa nero, il capo grillino evapora. Ed è costretto a ricordare: «Giuseppe l’ho scelto io»
Parla il presidente del Consiglio nell’aula del senato, e due uomini accanto a lui cambiano colore. Alla sua destra diventa nero il vice presidente Salvini, alla sua sinistra scolorisce il vice presidente Di Maio. Giuseppe Conte invece risplende in un’aureola di luce, per mezz’ora demolisce il salvinismo al potere di più e meglio di come abbia mai fatto qualsiasi senatore di opposizione. Parla con l’ambizione di guadagnarsi un secondo tempo politico, parla per rinverginarsi uomo delle istituzioni. Ma parla soprattutto, e si vede benissimo, come chi ha perso le catene e finalmente può esprimersi libero. E pazienza se quelle catene non le ha spezzate lui, ma ha deciso di togliergliele proprio Salvini aprendo la crisi. Ognuna delle tante accuse che questo Conte tutto nuovo rivolge al suo vice – «irresponsabile», «irrispettoso», «opportunista», «pericoloso», ed è solo un piccolo campionario -, ogni applauso che piove puntuale dai banchi dei 5 Stelle, ha il suono di un enorme sospiro di sollievo. Ora basta. Ora gliel’ha cantate. Ora.
Il coraggio esplode all’improvviso. E dilaga nella replica. Salvini ha ritirato la mozione di sfiducia? «È un espediente. Si vede che non ha il coraggio di assumersi le sue responsabilità. Quel coraggio me lo assumo io davanti agli italiani, andrò comunque a dimettermi al Quirinale». E ancora: il Pd chiede discontinuità? Conte capisce che non c’è ancora abbastanza spazio per lui nel possibile governo giallorosso, allora sgomita: «Non rinnego nulla. Non c’è nessun ravvedimento». Anche sull’immigrazione, anche sul decreto sicurezza bis che «io ho negoziato in Consiglio dei ministri» ma «è stato cambiato dal parlamento sovrano».
L’hanno peggiorato i 5 Stelle, quel decreto. Ma nel discorso del presidente del Consiglio è Salvini ad avere tutte le colpe. «Ha violato il contratto di governo», strumento sconosciuto all’ordinamento costituzionale italiano, e insieme «non ha cultura costituzionale». È «preoccupante» perché chiama la piazza e invoca i «pieni poteri», ma non perché ha governato quattordici mesi dalla piazza e quei pieni poteri li ha avuti dal Consiglio dei ministri e dalla maggioranza per decreto e con fiducia. L’ultima fiducia sul decreto sicurezza bis, dice adesso Conte come chi ha capito troppo tardi, l’hai avuta due giorni prima di aprire la crisi «alimentando il sospetto di opportunismo politico». «Hai agito per interesse personale», «hai oscurato l’azione di governo», «sei contraddittorio perché non hai ritirato i tuoi ministri». Il gruppo della Lega rumoreggia, urla. Il gruppo 5 Stelle applaude, urla più forte. Il Pd sta a guardare. Conte insiste, qualche volta si gira a guardare Salvini, qualche volta richiama l’attenzione e la comprensione del sottosegretario Giorgetti, seduto davanti a lui. Sale di tono: «Hai fatto il controcanto politico», «non hai collaborato», «non sei venuto al senato a chiarire le vicende russe» e, peggio, «su quelle vicende ti sei rifiutato di condividere con me le informazioni di cui sei in possesso». E sempre Salvini incassa, diventando più nero, scuotendo appena la testa. Qualche volta fa persino cenno ai suoi di calmarsi.
Rimpicciolisce anche Di Maio, accanto al presidente del Consiglio che lievita. Il capo politico uscente dei 5 Stelle ha fatto esporre uno striscione per ringraziare Conte, si capisce che è stato lui perché lo hanno messo davanti al palazzo sbagliato, alla camera. Mentre Conte si veste da leader in parlamento, Di Maio si rintana su facebook. Per ricordare, proprio adesso, che è stato lui, «con Alfonso Bonafede», a scegliere Conte. Anzi, «amico mio, sei una delle scelte di cui vado più fiero nella mia vita». Non devono essere molte. Ora le foto dei due assieme, sorridenti, con le quali la comunicazione grillina intasa i social, ora sembrano più utili a Di Maio che a Conte.
E intanto il presidente del Consiglio insiste, picchia da mezz’ora che, sposta la mano destra sulla spalla del suo vice, del suo nemico: «Ti sei distratto dai tuoi compiti istituzionali». Quando lo sente Salvini ha un bicchiere d’acqua in mano, lo tiene fermo a mezz’aria. L’accusa fa male, dice qualcosa lontano dal microfono come «qui ti sbagli, amico». Ma Conte lo ferma: «Parlerai dopo». E gliene dice ancora un’altra: «Chi ha compiti istituzionali non dovrebbe agitare simboli religiosi nei comizi». Forse è qui che Salvini capisce che è finita. Per un momento resta immobile, mentre adesso applaude anche il Pd. Poi tira fuori dalla tasca il rosario, lo bacia, lo mette sul banco, ci si aggrappa ancora una volta. E Conte insiste sulla laicità dello stato, e il Pd applaude ancora di più. È finita, allora. Salvini adesso indica gli applausi del gruppo democratico: vedete, fa segno ai suoi. È finita.
Lo ratifica Conte, annunciando che si recherà comunque al Quirinale per dimettersi a conclusione del dibattito. Si commuove appena un po’. Dice che si può fare politica senza abusare dei social e senza odiare, i 5 Stelle capiscono eppure applaudono. Dice che gli è dispiaciuto dover parlare ai banchi vuoti quando ha riferito, al posto di Salvini, su Moscopoli, e i 5 Stelle non capiscono che è di loro che parla e applaudono ancora.
Però Conte ha un secondo tempo del suo intervento, quasi un’altra mezz’ora. «L’azione di questo governo si arresta qui, ma c’è ancora molto da fare». Il passo indietro nasconde il tentativo di farne due avanti. Il presidente del Consiglio diventato effettivamente tale in articulo mortis ha già un programma. Con dentro tutto, per tutti: sviluppo ma anche ambientalismo, europeismo ma «critico», autonomia differenziata e anche «un piano per il sud». E poi c’è anche il suo coraggio, adesso. Manca solo l’autocritica. Quella che chiedeva Zingaretti. Ma non tutto il Pd.
* Fonte: Andrea Fabozzi, IL MANIFESTO
photo: U.S. Army photo by Elizabeth Fraser / Arlington National Cemetery [Public domain]
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