Capitalismo delle piattaforme. Il grande contraccolpo digitale

Capitalismo delle piattaforme. Il grande contraccolpo digitale

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Dal 16° RAPPORTO SUI DIRITTI GLOBALI – Un mondo alla rovescia

1° Capitolo – ECONOMIA E LAVORO

Il Focus. LA SINTESI

Nel 2018 è esplosa la bolla della fiducia creata dal capitalismo delle piattaforme digitali. Il credito illimitato che hanno ispirato aziende come Facebook, Google, Uber o Amazon sono stati incrinati da alcuni drammatici eventi che hanno modificato la loro percezione pubblica. Il contraccolpo digitale è stato capire che lo stesso software ritenuto utile per la vita civile, essenziale per il divertimento e le relazioni amicali tra persone, può essere usato per sorvegliare gli stessi soggetti, reprimerne altri giudicati “pericolosi”, colpire con bombardamenti di droni popolazioni civili o indirizzare nascostamente il consenso degli elettori attraverso strategie elettorali digitalizzate. Fondamentalmente la propaganda digitale è molto simile al meccanismo che governa la pubblicità: l’offerta personalizzata è creata in base ai comportamenti visibili dell’utente online. Si tratta dunque di semplice marketing: dispositivi come quelli di Cambridge Analytica sono pensati per mobilitare gli elettori più sensibili, contando che si trasformino in tribuni digitali e che sponsorizzino la merce politica che interessa ai finanziatori.

Gli eventi che hanno accompagnato il contraccolpo digitale sono: il caso Cambridge Analytica, un’azienda protagonista della più grande profilazione a fini politici di 87 milioni di account Facebook; il caso geopolitico scaturito dalla produzione delle fake news da parte di aziende e attori russi a sostegno della campagna di Donald Trump per la Casa Bianca nel 2016 (Russiagate); la battaglia antievasione fiscale e sulla concorrenza condotta dalla Commissione Europea contro i GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) a suon di multe miliardarie e l’istituzione del regolamento per la protezione dei dati (GDPR) valido per l’intero continente; il dilagare dei discorsi d’odio (hate speech), razzisti, sessisti, negazionisti, attraverso siti e social network, spesso cassa di risonanza di partiti xenofobi e populisti; la protesta dei dipendenti Google, di Microsoft e di Amazon contro la collaborazione delle aziende alla creazione di software per l’industria militare e per la polizia; le lotte per i diritti e le tutele dei ciclofattorini (riders) nel settore delle consegne a domicilio attraverso le piattaforme digitali (food delivery), come Deliveroo, Foodora o Just Eat, che si sono strutturate anche in Italia.

Cambridge Analytica. Cambridge Analytica è stata una società di consulenza politica britannica, fondata nel 2013 dall’ideologo dell’estrema destra americana Steve Bannon e dall’hedge fund manager e miliardario americano, vicino ad ambienti conservatori, Robert Mercer. Nel 2016 ha lavorato per la campagna presidenziale di Donald Trump e per la campagna Leave nel referendum sull’Unione Europea tenuto nel Regno Unito.

Il 17 marzo 2018 il “New York Times” e “The Guardian” hanno svelato che l’azienda aveva acquisito e utilizzato i dati personali degli utenti di Facebook da un ricercatore esterno che aveva dichiarato di raccoglierli per scopi accademici. I dati personali di circa 87 milioni di utenti americani (un milione di inglesi, oltre 200 mila italiani) di Facebook sono stati acquisiti tramite i 270 mila utenti Facebook che hanno utilizzato un’applicazione denominata “This Is Your Digital Life”. Per il suo ruolo nel caso Cambridge Analytica, l’11 luglio 2018 Facebook è stata multata con 500 mila dollari, la massima penalità prevista negli Stati Uniti dal Data Protection Act. Il gruppo era il cuore di un sistema di raccolta, profilazione e investimento dei dati per fini politici. Nell’aprile 2017 Bannon, la cui partecipazione nell’impresa è stata stimata tra 1 e 5 milioni di dollari, ha ceduto le sue partecipazioni, dopo essere stato chiamato da Trump a ricoprire il ruolo di “White House Chief Strategist”. Ruolo lasciato pochi mesi dopo ufficialmente per divergenze con il nuovo presidente.

Russiagate. Anche la Russia ha utilizzato i social per influenzare l’esito delle elezioni americane. Sarebbero stati 80 mila i post che hanno raggiunto tramite Facebook 126 milioni di persone negli USA. Il 31 luglio 2018 Facebook ha annunciato di avere individuato trentadue pagine Facebook e profili Instagram che sembravano essere legate alla Internet Research Agency (IRA), un gruppo legato al Cremlino, che operava a sostegno dei repubblicani in vista delle elezioni di metà termine del 2018.

Brexit: il ruolo di Cambridge Analytica (e di Facebook). Il caso Cambridge Analytica ha interessato un altro tema fondativo della politica nazional-populista: la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, votata da un referendum nel 2016. Tutto è iniziato da Shahmir Sanni, un informatore che ha lavorato per la campagna ufficiale della Brexit, che ha sollevato dubbi sui conservatori che hanno gestito la campagna e oggi sono le figure chiave che lavorano per la conservatrice Theresa May a Downing Street: avrebbero violato le regole sulle spese elettorali e poi tentato di distruggere le prove. Sanni era tesoriere e segretario di BeLeave a 22 anni, ed è ancora un euroscettico impegnato. Sostiene di aver deciso di rendere pubblico l’affare perché non vuole che la Brexit sia macchiata da attività potenzialmente illegali. BeLeave era un piccolo gruppo di sostegno alla Brexit, gestito da ventenni senza alcuna esperienza reale o background in politica o finanza. Sanni crede che gli alti funzionari di Vote Leave possano aver approfittato della giovinezza dei militanti e della loro inesperienza politica per aumentare le proprie spese. Sanni ha sollevato dubbi sulla validità di una donazione di 625 mila sterline da parte di Vote Leave a un gruppo apparentemente indipendente come BeLeave, che è stato incanalato verso la società di servizi digitali, AggregateIQ, società autonoma di proprietà canadese che ha avuto collegamenti con Cambridge Analytica. A suo avviso, questa sarebbe una violazione delle regole elettorali, poiché non sarebbe una donazione genuina. Sanni sostiene che BeLeave aveva uffici condivisi con Vote Leave – diretto da Boris Johnson e Michael Gove – che ha offerto assistenza al gruppo su come e dove spendere il finanziamento. La legge elettorale britannica vieta il coordinamento tra le diverse organizzazioni elettorali che devono rispettare i limiti di spesa. Vote Leave ha invece negato qualsiasi coordinamento. Sanni sostiene che dopo l’apertura dell’indagine parlamentare, account a nome di Victoria Woodcock, il direttore operativo di Vote Leave, del direttore della campagna Dominic Cummings e del direttore digitale di Vote Leave, Henry de Zoete, avrebbero cancellato decine di file dal drive condiviso tra Vote Leave e BeLeave per nascondere il fatto. Dopo il referendum, Dominic Cummings, stratega capo della campagna Vote Leave, ha dichiarato sul sito web dell’AIQ: «Senza dubbio, la campagna per lasciare l’Unione Europea deve molto del suo successo al lavoro di AIQ. Senza di loro non avremmo potuto farlo». Il pagamento a AggregateIQ è stato apparentemente effettuato da BeLeave all’approssimarsi della fine della campagna referendaria. Sanni sostiene che BeLeave non ha avuto alcuna scelta su dove spendere il denaro, non ha firmato un contratto con AggregateIQ e non ha deciso ciò che l’azienda di dati ha fatto con i fondi. Il denaro non è mai passato attraverso il conto bancario del gruppo. Facebook ha rilasciato solo parte dei dati sulle tattiche pubblicitarie online utilizzate dai gruppi della campagna referendaria Brexit, in risposta a domande specifiche da parte dei parlamentari della Commissione che a Londra sta indagando su queste vicende.

Il caso Google e i tech workers. Nel luglio 2018 Google è stata colpita da una multa record di 4,34 miliardi di euro dalla Commissione Europea per aver abusato della sua posizione dominante sul mercato dei sistemi operativi per la telefonia cellulare. L’azienda ha infatti imposto ai produttori di smartphone di preinstallare il suo sistema operativo Android per consolidare la sua posizione dominante come motore di ricerca. Google è inoltre stato accusato di utilizzare pratiche di vendita abbinata e pagamenti di esclusività che consolidano il suo monopolio. La Commissione Europea ha anche chiesto a Google di cedere una parte del controllo su Android e includere il Google Play store senza dover installare l’applicazione Google Search e Chrome. Inoltre, sempre quest’anno, il gigante digitale ha dovuto rinunciare al progetto Maven sottoscritto con il Pentagono. Il progetto prevedeva la realizzazione di un drone militare armato di intelligenza artificiale per il Dipartimento della Difesa statunitense. Secondo Google questo drone non dovrebbe essere usato con scopi offensivi, ma il progetto Maven è stato in realtà pensato dalla Difesa USA per l’utilizzazione dell’intelligenza artificiale anche contro lo Stato islamico. È a questo punto che sono entrati in gioco i dipendenti Google, che hanno accusato l’azienda di aver iniziato a lavorare nel settore militare senza sottoporsi a dibattiti o deliberazioni pubbliche. Per protesta, una dozzina di dipendenti si sono dimessi, oltre 3 mila hanno chiesto che l’azienda rescindesse il contratto per Maven e 90 accademici che lavorano sull’intelligenza artificiale hanno scritto una lettera aperta chiedendo a Google di sostenere il Trattato internazionale che proibisce i sistemi d’arma basati sull’intelligenza artificiale. Google ha dunque annunciato di rinunciare al progetto Maven. Altra protesta importante dei dipendenti nei confronti dell’azienda è stata quella contro un software per i motori di ricerca da usare in Cina che blocca determinati termini, considerati dalle autorità politicamente pericolosi (ad esempio Tiananmen), e siti inseriti nella lista nera del governo cinese, come Facebook e il “New York Times”. Questo dimostra la doppia morale della Silicon Valley. Google, infatti, aveva lasciato la Cina a causa della censura adottata dal governo per impedire la libera espressione degli utenti della rete. Ma la Cina è uno straordinario mercato in crescita e Google ci vuole rientrare a tutti i costi. I dipendenti hanno però chiesto l’istituzione di un gruppo di valutazione che esamini i progetti che sollevano questioni etiche. Il caso Microsoft è simile. L’azienda ha venduto al governo americano un software per il riconoscimento e l’identificazione del viso dei migranti proprio mentre Trump radicalizzava la sua politica dei respingimenti. Con una lettera aperta all’Ad di Microsoft Satya Nadella, i dipendenti hanno chiesto la rescissione del contratto. Infine, il caso di Amazon conferma come i tech workers, insieme alle associazioni per i diritti civili, possono cambiare le cose. Nel maggio 2018 Amazon ha venduto una tecnologia di riconoscimento facciale chiamata Rekognition ai dipartimenti di polizia USA. Uno strumento di sorveglianza di massa che può essere utilizzato in modo improprio dalle forze dell’ordine. Come nel caso di Cambridge Analytica per Facebook, Rekognition è uno degli esempi del modo in cui il capitalismo digitale rafforza il proprio potere e accresce il suo ruolo nel governo degli algoritmi. L’ambivalenza tra civile e militare, tra sicurezza e libertà, è consustanziale alla tecnologia digitale che va considerata come un dispositivo politico e non solo come un software o un hardware. Ma l’intelligenza artificiale applicata in modo crescente al controllo sociale e alla repressione non riguarda solo le società occidentali. Viene stimato che la Cina, entro il 2020, avrà quasi 300 milioni di telecamere installate, e la sua polizia spenderà 30 miliardi di dollari per controllare 1,4 miliardi persone con la tecnologia di sorveglianza. Non che negli Stati Uniti la situazione sia migliore, ma certo esiste una differenza nella tutela dei diritti delle persone, dei loro dati e nella controinformazione. Vista la privatizzazione e la militarizzazione in atto, le distanze sono molto ravvicinate perché il dispositivo biometrico e securitario è comune ed esiste una concorrenza dichiarata tra aziende globali cinesi e americane ugualmente quotate in borsa.

La sorveglianza. Il dibattito sulla violazione dei dati personali [data breach] degli utenti Facebook ha evidenziato la mancanza di consenso informato da parte degli interessati e ha mostrato i limiti di un sistema basato sull’acquisizione dei dati personali degli utenti tramite app. Mentre si discute di sicurezza dei dati personali, di lotta alle fake news e cresce la consapevolezza sull’impatto devastante che le piattaforme hanno sull’opinione pubblica da parte di chi ci lavora, oltre che di chi usa questi strumenti, accompagnato dal timore che gli strumenti adottati per filtrare o cancellare i messaggi di odio, di violenza e politicamente insostenibili negheranno di fatto la libertà di tutti coloro che, pur non pubblicando materiali razzisti o nazisti, saranno soggetti a censura e controllo, le conseguenze economiche del contraccolpo digitale sono sotto gli occhi di tutti. Nel marzo 2018, in coincidenza con lo scandalo sulla monetizzazione dei dati personali, il tasso di fiducia degli utenti Facebook (2,23 miliardi di utenti mensili attivi, ognuno valutato 3 dollari) è calato al 41%. A luglio 2018, quando sono stati presentati i conti della seconda trimestrale, Facebook ha perso più di 118 miliardi di dollari di valore di mercato in un solo giorno, a seguito dell’annuncio della perdita di tre milioni di utenti in Europa: da 282 a 279 milioni. La violazione dei dati di Cambridge Analytica è costata circa 17 miliardi di dollari al patrimonio personale del fondatore Mark Zuckerberg. Una perdita, in fondo, ancora modesta, dato che il patrimonio è stato calcolato in 87 miliardi di dollari; ora sono dunque “solo” 70. Si è trattato di uno dei più grandi crolli mai registrati in un solo giorno nel valore di mercato di un’azienda. Ma, anche dopo il crollo azionario, Facebook resta la quinta società più redditizia nei mercati americani. Il Leviatano digitale può tuttavia ancora stare tranquillo, considerato che, rispetto al 2012, quando è stato quotato a Wall Street, le sue azioni sono aumentate del 355% rispetto al prezzo iniziale. Nell’anno di grande contraccolpo digitale anche il titolo di Twitter ha perso 5 miliardi di dollari nel luglio 2018, la seconda perdita borsistica più grande dal 2013. È accaduto quando la società ha comunicato la cancellazione di un milione di account falsi e offensivi dalla sua piattaforma. Gli utenti attivi mensili sono scesi da 336 milioni a 335 milioni tra aprile e luglio. Il calo del prezzo delle azioni di Twitter è arrivato il giorno dopo quello del 19% nelle azioni di Facebook, che ha rivelato di aver perso 3 milioni di utenti in Europa dopo lo scandalo della violazione dei dati da parte di Cambridge Analytica e l’introduzione delle leggi sulla privacy nell’Unione Europea.

Il Futuro dei Big Five. Il futuro si gioca sulla regolamentazione del trattamento dei dati personali, sui cambiamenti di mercato dovuti alla presenza dei monopoli di giganti come Facebook, Google, Amazon, sulla possibilità di tassare i loro ingentissimi proventi, sul consenso politico costruito sulle piattaforme digitali, di cui un esempio lampante, e pericolosamente crescente, è il Nazional-Populismo. Il 25 maggio 2018 è entrato in vigore nell’Unione Europea il regolamento del trattamento dei dati personali (GDPR). Il testo conferisce ai consumatori il controllo della proprietà dei loro dati personali, compreso il diritto di decidere se condividerli o meno, e di cancellarli. Rispetto alla già cospicua serie di leggi e programmi in materia di protezione dei dati in Europa e negli Stati Uniti, la GDPR ha un campo di applicazione più ampio, norme più prescrittive e multe più elevate. Google e Facebook si sono preparati per tempo all’entrata in vigore del regolamento: hanno condotto una costante opera di pressione sulla Commissione e sul Parlamento Europeo, hanno annunciato di condividere lo “spirito” del testo. A Bruxelles e a Strasburgo la sola Facebook ha investito in lobbying una cifra compresa fra i 2,2 e i 2,5 milioni di euro nel 2017, contro i 150-200 mila euro del 2011. Comunque, l’andamento dei profitti di Google e Facebook non ha risentito del regolamento generale sulla protezione dei dati in Europa. C’è, inoltre, la possibilità che lo zelo normativo diminuisca nel caso di un cambio della maggioranza nel Parlamento e nella Commissione UE a partire dal 2019, quando è previsto un significativo riequilibrio delle maggioranze a favore dei “populisti”, sensibili alle posizioni del capitalismo digitale sul modello di Trump.

La crisi di fiducia delle piattaforme pubblicitarie come Facebook e di microblogging come Twitter non ha comunque fermato i profitti enormi dei giganti della tecnologia. Nelle settimane centrali di luglio 2018, in cui sono emerse le gigantesche perdite in borsa di Facebook e Twitter, i cinque grandi (Amazon, Apple, Microsoft, Facebook e Google) hanno dato splendide notizie ai loro investitori. Amazon ha registrato un profitto record. La casa madre di Google, Alphabet, ha battuto le proiezioni di Wall Street: il profitto trimestrale è stato di 3,2 miliardi di dollari. Lo stesso ha fatto Apple, diventata la prima azienda a raggiungere una valutazione di mercato da oltre un trilione di dollari nell’agosto 2018. Un andamento analogo era stato già registrato a inizio febbraio 2018 quando le “Big Five” hanno totalizzato 42 miliardi di utili in tre mesi e la capitalizzazione a Wall Street aveva raggiunto 3.700 miliardi di dollari, quanto il Prodotto interno lordo della Germania. Questa ascesa non conosce eguali nella storia del capitalismo e non è stata fermata nemmeno dalla modesta riforma fiscale di Trump, pensata proprio per evitare troppi danni alle multinazionali. Il valore totale delle cinque imprese ammonta al 19% del PIL totale degli Stati Uniti.

Le piattaforme digitali intermediano una crescente quota del commercio e delle comunicazioni globali. I dati della storia recente dimostrano che la concorrenza è spazzata via dalla costituzione di immensi monopoli in settori che si uniscono intorno a uno o due giganti. Facebook non ha concorrenti: è il mercato. L’economia dei mercati digitali incentiva il perseguimento della crescita rispetto ai profitti, una strategia che gli investitori finanziari continuano a premiare a dispetto delle politiche fondate sulla redistribuzione e l’aumento dei salari. Queste aziende, inoltre, detengono miliardi di dollari in fondi offshore, fuori dalla portata delle autorità statali. Una situazione che necessita di una soluzione globale, anziché meramente europea, al problema di come, cosa e dove tassare l’economia digitale. Ma queste imprese possono anche essere guardate come fornitrici di servizi di pubblica utilità, perché offrono un servizio di base infrastrutturale da cui dipendono altre imprese, individui e gruppi sociali. Una politica di pubblica utilità [public utility] delle piattaforme potrebbe manifestarsi se i governi potessero ridurre la posizione dominante delle piattaforme adottando un approccio antitrust modificato, facilitando l’ingresso dei concorrenti sul mercato per aumentare la concorrenza, ridurre la posizione dominante e quindi contestare standard o prezzi sleali. In secondo luogo, i governi dovrebbero imporre obblighi pubblici quali la tutela dei consumatori, i diritti dei lavoratori e la non discriminazione attraverso una legislazione specifica per il settore. Infine, il Nazional-Populismo è l’interprete più accreditato del populismo digitale. Il Nazional-Populismo non contesta l’egemonia capitalista sulla rete, ma globalizza politicamente la logica delle piattaforme: la prossimità e la condivisione dei valori, e delle relazioni, in piccole cerchie comunitarie definite “bolle cognitive”. Il comunitarismo, l’etnicismo, l’identitarismo, l’autoctonia, lo sciovinismo del benessere, il narcisismo e l’ideologia del patrimonialismo – gli elementi del Nazional-Populismo – sono contrapposti ai diversi, agli allogeni, agli stranieri, ai migranti considerati abitanti di altre bolle (“nazioni”) impenetrabili e da cui tenersi lontani per mantenere la coerenza della propria bolla identitaria. È lo stesso meccanismo che segue il modello delle bolle cognitive sul quale è costruita la logica di una piattaforma dominante come Facebook, stella cometa delle strategie elettorali. L’egemonia Nazional-Populista non nasce nella rete, ma si espande grazie a una rete cognitiva organizzata per compartimenti stagni attraverso i quali passano i messaggi di organizzazione politiche finanziate con milioni di dollari. Le piattaforme digitali rappresentano dunque il cavallo di Troia del Nazional-Populismo il cui messaggio passa dai social network. È qui che si forma il consenso basato sull’illusione che sia la volontà del popolo a parlare attraverso il numero delle condivisioni su Facebook, mentre in realtà è l’algoritmo che decide la visibilità di un contenuto in base agli interessi degli attori politici o economici prevalenti. Questa è la straordinaria metafora del populismo: dietro ogni narrazione sul popolo, e la nazione, c’è l’algoritmo del capitale. Se i proprietari della tecnologia decidessero di cambiare l’algoritmo, allora il Nazional-Populismo non avrebbe visibilità. Ma questo comporterebbe la fine dei profitti miliardari prodotti dalle loro piattaforme. Su questa duplice contraddizione si gioca la politica nel 2018 e 2019.

Fonte: 16° Rapporto sui diritti globali

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Foto di Mary Pahlke da Pixabay



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