Scontro nel governo sull’aumento dell’IVA, Salvini e Di Maio contro Tria
Salvini: «Non aumenterà. Punto». I 5 Stelle: «Se il ministro vuole aumentarla vada nel Pd»
Che si fa con l’Iva? La si aumenta dal gennaio 2019 «a legislazione vigente», come recita laconico il Def, o solo «in assenza di misure alternative», come la mette in mattinata il ministro dell’Economia? La si sterilizza senza se e senza ma, costi quel che costi e peccato che nessuno sa quanto costi, come ripetono furibondi Matteo Salvini («L’Iva non aumenterà. Punto») e Luigi Di Maio («Se Tria vuole aumentare l’Iva vada nel Pd. Sia chiaro che con questo governo non c’è nessun aumento dell’Iva)? Per ora la risoluzione di maggioranza sul Def, che verrà approvata oggi al Senato, se la cava, dopo ore di trattative e tensioni virgola per virgola, con un gioco di parole in realtà molto simile a quello iniziale del ministro Tria, però ad accentuazione rovesciata: con l’«impegno a sterilizzare l’Iva compatibilmente con i conti pubblici». Traduzione: chissà, vedremo.
IN SERATA, PRESSATO come forse mai prima dai vicepremier e soci di maggioranza, Tria, che secondo il viceministro leghista Massimo Garavaglia era stato semplicemente «male interpretato», chiarisce e si schiera, almeno in apparenza, con il fronte che vede ogni accenno all’aumento della tassa come una bestemmia e un sacrilegio. «L’obiettivo sarà evitare l’aumento dell’Iva e proseguire nella riforma fiscale anche dell’Irpef». È proprio quello che secondo le indiscrezioni piovute per settimane il ministro riteneva impossibile: avviare sul serio la Flat Tax e insieme sterilizzare l’aumento dell’Iva. «Si possono trovare i soldi», dice ora Giovanni Tria. Ci sono, «però sono allocati: la decisione di dove toglierli e dove metterli è politica». Come dire che il prezzo della quadratura del cerchio, anche ammettendo che sia effettivamente possibile, è una «decisione politica» dolorosa: tagliare pesantemente la spesa.
INSOMMA, IL GOVERNO si dibatte in un labirinto e per ora si destreggia giocando su due Def diversi. C’è quello messo nero su bianco, e parla di aumento delle tasse. C’è quello raccontato dai leader in tv una sera sì e l’altra pure, e annuncia, al contrario esatto, il taglio delle tasse. Ineffabile, Salvini spiegava martedì sera all’intervistatore Giovanni Floris che il testo del Def, serve a «fare contenta l’Europa». Mica lo prenderete sul serio spero! Le stime sono «prudenziali», certo non vanno prese per oro colato.
In tempi normali un doppio binario simile non sarebbe possibile. Le dichiarazioni dei governanti verrebbero bersagliate a stretto giro da Bruxelles. Ma questi non sono tempi normali. C’è la campagna elettorale di mezzo e dunque una tacita “licenza di straparlare”. Le due realtà alternative sulle quali gioca oggi l’Italia entreranno in collisione solo dopo le elezioni europee, in un quadro complessivo che sia in Italia che in Europa sarà necessariamente diverso.
Sarebbe comunque una partita ad altissimo tasso di difficoltà e rischio. Lo è a maggior ragione perché se è vero che le risse quotidiane nella maggioranza sono elettorali e di facciata, è anche vero che la realtà nascosta dietro quella facciata non è molto più consolante. È la paralisi.
L’ESEMPIO PIÙ ELOQUENTE sono i due decreti che dovrebbero avviare la seconda fase dell’attività di governo, quella degli investimenti, lo Sbloccacantieri e il decreto Crescita. Sono stati approvati «salvo intese» settimane fa. Da quel momento le intese non sono state trovate. Così martedì sera il capo dello Stato ha convocato il presidente del consiglio Conte ed è stato tassativo, previo breve ripasso della Costituzione. Il decreto risponde a criteri «di necessità e urgenza».
Dopo quasi un mese nel cassetto è evidente che non si registrano né l’uno né l’altro requisito. Non si illudessero quindi di portare chissà quando i decreti sul Colle per una firma che Sergio Mattarella negherebbe. Bisogna invece ricominciare da capo. Trovare le intese. Riportare i decreti in consiglio dei ministri, riscriverli e consegnarli la sera stessa al Quirinale per la firma. Conte si è adeguato ma i decreti non arriveranno nemmeno oggi al consiglio dei ministri. Perché le intese non ci sono.
Difficile pensare che un governo non in grado di procedere con l’attività amministrativa riesca tra qualche mese a fronteggiare una situazione che richiederà, parola di Tria, «decisioni politiche». Di quelle che sarebbe molto difficile prendere anche per una vera maggioranza.
* Fonte: Andrea Colombo , IL MANIFESTO
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La Milano dei cinque cerchi, quella della neoborghesia dei flussi, del terziario commerciale e dei servizi, degli invisibili migranti che lavorano e non votano, dei creativi metropolitani che lavorano comunicando e delle imprese fuori dalle mura nella pedemontana lombarda ha votato. Chissà se la politica che verrà saprà tenere assieme i 5 cerchi? Vi precipita una nuova composizione sociale di operosi, di nuovi lavori che hanno voglia di mangiare futuro. C’è da sperare che chi andrà a Palazzo Marino saprà , dopo aver vinto, continuare con logiche di ascolto e di accompagnamento.