Dieci anni fa, il terremoto. L’Aquila nel lutto, «ma c’è voglia di rinascita»
L’AQUILA. Ventitré secondi, un’eternità. Durò tanto la scossa, fortissima, che il 6 aprile 2009, alle 3.32, piegò l’Aquila e l’Abruzzo intero. Alla fine furono 309 i morti di quel dramma, circa 10 miliardi i danni stimati. Per giorni vigili del fuoco, volontari, uomini della Protezione civile, militari dell’Esercito e le forze dell’ordine scavarono, anche a mani nude, per tentare di salvare quante più vite possibili.
DIECI ANNI DOPO la «zona rossa» dell’Aquila è segnata ancora da tante impalcature, strade chiuse, abitazioni da ristrutturare. Seppur in un tentativo deciso di rinascita. C’è il rumore incessante dei martelli pneumatici, delle betoniere, accompagnato dal silenzio dei vicoli, dal balletto delle gru, dall’immobilità dei ricordi, che s’agitano tra le pietre. L’Aquila, al momento, è ancora il cantiere più grande dello Stivale. E, soprattutto, è il simbolo di un’Italia che coesiste con i disastri e che non è ancora capace di attuare politiche di prevenzione e di tutela del territorio.«Che L’Aquila sia una questione nazionale di cui occuparsi, è assodato – dice il sindaco, Pierluigi Biondi, di Fratelli d’Italia -. Ed è un’emergenza nella misura in cui è lo specchio di un Paese fragile, che va gestito con grande cautela e sapienza nelle costruzioni pubbliche e private. Ma non lo è se assume i tratti di una landa desolata, popolata di disperati, folli che hanno perso la fiducia. Per carità, – afferma – la denuncia non può essere taciuta. Dal centro che deve rinascere, agli incentivi insufficienti, alla farraginosità delle procedure, all’indifferenza: sono voci che domandano ascolto, questioni su cui lavoriamo e per cui chiediamo da sempre alla politica nazionale di non girarsi dall’altro lato, ma, con convinzione, di sposare il nostro progetto e il sogno di un luogo fatto di gente, non solo di case».
L’AQUILA PATRIMONIO di tutti. «Di speranza, soprattutto- evidenzia Biondi -. Siamo qualcosa da scoprire e toccare con mano. Qualcosa di cui innamorarsi, qualcosa da tornare a vedere per accorgersi che cambia continuamente e che, no, non è vero che siamo sempre uguali se, mai dal 1908 e 1915, ci fu tragedia più devastante. Se mai una città è stata abbattuta e poi rifatta daccapo. Se sono solo sette anni – perché questo è il tempo trascorso dalla fine dell’emergenza – che la ricostruzione è iniziata».
E CHE FATICOSAMENTE procede. Sono tornati a splendere chiese e palazzi, i gioielli della città di Federico II. «La nostra – riprende il primo cittadino – è una sfida, non solo incartata dai ponteggi. È ritrovare il bianco marmo della basilica di Collemaggio, il fresco verde del Parco del sole, l’arcobaleno dell’energia creativa culturale, dell’innovazione e della ricerca. Il sacrificio che ciascuno di noi, con la sua scommessa personale, sta affrontando, spesso con dolore e sconforto, non può essere derubricato a vergogna nazionale, senza appello».
La ricostruzione privata è in fase avanzata, anche se ancora manca tanto. La vera ombra riguarda quella pubblica, praticamente al palo, in particolare quella delle scuole: nessuna ad oggi è stata rifatta. Restano gli scheletri dei vecchi istituti, abbandonati e non demoliti. Un discorso a parte va fatto per le sessanta frazioni del capoluogo: ad esempio Onna, Paganica e Tempera, che mostrano evidenti i segni dei ritardi e in alcuni posti il tempo davvero pare essersi fermato. E poi c’è un tessuto sociale da… ritessere. «Dobbiamo trovare il coraggio di dire che siamo in rigenerazione – fa presente Biondi -. Nessuno di noi può permettersi che il dolore della perdita, che mai potrà essere taciuta o edulcorata, sia relegato all’ineluttabilità. Bisogna attribuirgli un senso. Insomma, non si può raccontare solo la città ferita, si deve raccontare anche la città rimarginata». Che oggi è in lutto, lutto cittadino.
* Fonte: Serena Giannico, IL MANIFESTO
Foto di Angelo Giordano da Pixabay
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