Khalida Jarrar: «Donne in lotta contro l’occupazione e per i loro diritti»
Territori palestinesi occupati. Le nostre donne devono battersi anche per conquistare i loro diritti
RAMALLAH. Ad aprirci la porta di casa, in una zona centrale di Ramallah, è Ghassan, marito della parlamentare Khalida Jarrar liberata pochi giorni fa dopo venti mesi di carcere senza processo in Israele. Jarrar è una dei leader in Cisgiordania del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, il Fplp, di orientamento marxista e principale formazione della sinistra palestinese. «Khalida avrebbe bisogno di riposo ma tanti vogliono incontrarla, intervistarla, ascoltarla e così abbiamo la casa sempre piena», ci dice facendoci strada fino al salotto. Pochi istanti dopo ci raggiunge la parlamentare, visibilmente provata.
Quasi due anni in prigione senza processo. Come si esce da una esperienza del genere.
(Annuisce) Male…Il carcere è duro. Ed è ancora più duro quando ti mettono in una cella senza rivolgerti un’accusa. Sapere che sei lì soltanto per le tue idee, per il tuo impegno a favore delle aspirazioni del tuo popolo ti rende tutto più amaro. L’amarezza aumenta quando pensi che la detenzione amministrativa (così è conosciuta nell’ordinamento militare israeliano, ndr), che ho pagato di persona come altre migliaia di palestinesi dall’inizio dell’occupazione (israeliana), è una violazione palese delle leggi internazionali. Sono forte e mi sto riprendendo un poco alla volta, tuttavia lo stress fisico e mentale è stato notevole. Senza contare il dispiacere che ho provato, al momento del rilascio, sapendo che altre 48 donne palestinesi, detenute per motivi politici, sarebbero rimaste in carcere mentre io riacquistavo la libertà e riabbracciavo la famiglia e i compagni di lotta.
Secondo i comandi militari israeliani lei svolgerebbe attività sovversive per conto del suo partito il Fplp, che descrivono come una “organizzazione terroristica”.
È l’accusa abituale che gli israeliani rivolgono a ogni palestinese che rifiuta l’occupazione. Il mio arresto è avvenuto solo per motivi politici, per fermare il mio impegno di dirigente di un partito rappresentato nel Consiglio legislativo palestinese. Lottare per la libertà quando si è oppressi è legittimo. Ricordo la notte dell’arresto. Sono stata ammanettata dai soldati che avevano fatto irruzione a casa mia intorno alle 2. Con una jeep che mi hanno portato ad Ofer (prigione ad ovest di Ramallah, ndr). Dopo ore di attesa sono stata trasferita alla prigione di Hasharon dove sono arrivata in tarda serata. Il giorno dopo mi hanno portato, e solo per pochi minuti, davanti a un giudice militare che non mi ha spiegato nulla. Il mio avvocato ha chiesto le ragioni del mio arresto, i presunti reati di cui venivo accusata. Nulla, nessuna risposta. Hanno solo fatto riferimento all’esistenza di un file segreto su di me che l’avvocato non ha mai potuto leggerlo. E per quel presunto file e senza mai ricevere accuse formali sono rimasta in prigione per quasi due anni.
In prigione è stata protagonista di una protesta, assieme alle altre detenute.
Sono state tante le proteste, credo che si sia saputo in particolare di quella per il rispetto della nostra privacy. In un carcere israeliano si viene monitorati da telecamere piazzate un po’ ovunque. Persino durante l’ora d’aria, il momento più atteso da chiunque sia costretto a vivere quasi tutto il tempo in una cella. Abbiamo chiesto di spegnerle perché quell’obiettivo acceso sulle nostre persone ci limitava, specialmente nell’attività sportiva quando ci si scopre, si usano indumenti leggeri. Alcune detenute palestinesi sono donne religiose, gelose della loro privacy. Per 63 giorni ci siamo rifiutate di uscire dalle celle. Per punizione siamo state trasferite alla prigione di Damon, dove le condizioni sono più dure. Anche lì siamo state punite in diverse occasioni perché non abbiamo rispettato ordini che non avevano logica e contenevano abusi. Per un mese non abbiamo potuto ricevere le visite delle famiglie. E ci parlavano sempre in ebraico, lingua che molte di noi non conoscevano.
La sua presenza in prigione ha contribuito al dibattito politico tra le detenute palestinesi?
Le palestinesi incarcerate per motivi politici discutono di tanti temi. Certo i fatti quotidiani, fuori dal carcere, nei Territori occupati, gli arresti, la demolizione delle case (palestinesi), le uccisioni di dimostranti, la situazione di Gaza e altre questioni politiche occupano buona parte delle discussioni. Ma le mie compagne parlano anche dei loro diritti di donne nella società palestinese.
Le palestinesi hanno ottenuto leggi e tutele importanti nei territori controllati dall’Anp. La strada da fare però è ancora molto lunga.
Accanto all’impegno contro l’occupazione israeliana, dobbiamo lottare per la nostra liberazione. Troppe leggi e troppi condizionamenti sociali e politici bloccano la strada che stiamo percorrendo. C’è un punto in particolare che gran parte delle forze politiche palestinesi non vogliono toccare: il diritto di famiglia che qui chiamiamo le “leggi della famiglia”. Queste leggi toccano diritti fondamentali delle donne, come la potestà genitoriale, il divorzio e tante altre cose. I partiti esitano a toccare questa materia perché sanno che le loro decisioni potrebbero essere contestate e rifiutate da una parte della società e dalle istituzioni religiose, temono di perdere consenso. E così resta ferma l’attuazione (da parte dell’Anp) di provvedimenti che pure stati approvati da tempo (dal governo). Mi riferisco, ad esempio, al diritto delle donne di ottenere senza restrizioni il passaporto o di poter aprire un conto corrente per i figli senza attendere l’approvazione del marito. L’elenco è lungo e chiedo al presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di firmare al più presto i decreti attuativi per questi provvedimenti rimasti fermi. Basta con i compromessi politici, sociali e religiosi che limitano o negano diritti alle donne.
Parliamo della sinistra palestinese. Alla fine dello scorso anno il Fplp e altre forze progressiste hanno dato vita all’Alleanza democratica (Ad), una coalizione che si pone in alternativa ai due partiti maggiori, Fatah e Hamas, divisi da uno scontro che va avanti da 12 anni. Da allora ben si è saputo poco di Ad.
Dal carcere ho potuto seguire solo in parte il dibattito tra il Fplp e il resto della sinistra. Posso dire che le discussioni sul programma di Alleanza democratica vanno avanti e mi sento ottimista sul ruolo che questa coalizione potrà avere. Allo stesso tempo non credo che Ad debba limitarsi a trovare il compromesso giusto per mettere fine, come vogliono i palestinesi, al conflitto tra Fatah e Hamas. Così come non basta la lotta all’occupazione israeliana. La sinistra palestinese deve tornare a parlare come sinistra, deve battersi per la giustizia sociale evitando il più possibile mediazioni con i programmi di altre forze politiche lontane da essa. Ai giovani non possiamo più portare decisioni confezionate ai vertici dei partiti da leader spesso molto anziani. Piuttosto dobbiamo coinvolgerli nell’analisi del capitalismo e degli effetti devastanti del liberismo e nella lotta al consumismo che è il risultato anche di modelli proposti dal sistema dominante. La strada per la rinascita è solo questa, essere di sinistra.
* Fonte: Michele Giorgio, IL MANIFESTO
photo: Zaher333 [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]
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