Pensare e costruire un nuovo orizzonte. Intervista a Giuseppe De Marzo
La crisi economica e la povertà hanno radici e cause più profonde e strutturali di quanto viene solitamente affermato. Tuttavia, è vero che la gravità della situazione attuale riguardo a disuguaglianze e povertà è inedita, perlomeno da quanto esistono statistiche e serie storiche in materia, l’inizio degli anni Settanta. Lo dicono i numeri. «Sono dati che denunciano una vera e propria guerra contro ceti medi e ceti popolari, ancora più amari se poi scopriamo che il numero di miliardari in Italia e in Europa sono triplicati», commenta Giuseppe De Marzo, coordinatore della Rete dei Numeri Pari. Da qui, «il diritto, il dovere e la responsabilità di invertire la rotta», costruendo alleanze e blocco sociale per il cambiamento, per recuperare e garantire diritti, dalla casa al “reddito di dignità”, per difendere beni comuni e ribadire così che sono la vita e i bisogni dei cittadini, a partire dai più deboli, a essere sacri, non certo la proprietà privata, come sostiene la propaganda di certa politica.
Rapporto Diritti Globali: I dati sulle povertà in Italia forniti dall’ISTAT quest’anno mostrano una decisa impennata. Il 2017 vede crescere soprattutto la povertà assoluta, quella che mette in discussione la dignità e la stessa sopravvivenza di chi la subisce. Accanto ai gruppi tradizionalmente colpiti – i minori, le famiglie del Sud e quelle numerose – crescono anche i working poor, specialmente operai, e gli anziani, che pure fino a oggi erano i meno penalizzati. A dieci anni dalla grande crisi, che ha innescato l’impennata delle povertà, e in presenza di timidi incrementi di PIL e occupazione, quali sono, dal tuo osservatorio, le ragioni prime di questa crescita? e del mancato recupero del trend negativo dal 2008, che pure si registra in altri Paesi europei?
Giuseppe De Marzo: Già nel 2008 eravamo di fronte a dati statistici inusuali e fuori dalle medie, perché questa crisi ha radici più profonde, strutturali e antiche rispetto a quanto è stato raccontato. Nel 2011 le tendenze sono diventate evidenti, tanto quanto l’assenza di risposte adeguate che hanno ulteriormente peggiorato il quadro. Oggi possiamo purtroppo affermare che non abbiamo mai avuto nella storia della Repubblica una situazione così grave in termini di disuguaglianze e povertà, considerando che disponiamo di informazioni e serie storiche a partire dal 1971. Ce lo dicono i numeri. Vale però la pena sempre ricordare che in realtà si tratta di persone in carne e ossa, volti, storie. In meno di dieci anni il numero di italiani in povertà assoluta è triplicato, sono ora oltre 5 milioni; sono raddoppiati quelli in povertà relativa, 9,3 milioni; siamo diventati il Paese con il maggior numero di minori in povertà assoluta, oltre un milione; registriamo il peggior livello di dispersione scolastica in Europa, siamo al 17,6% con punte ben oltre il 20% al Sud; abbiamo il numero più alto di working poor, oltre 4 milioni; siamo davanti alla generazione di giovani più impoverita nella storia della Repubblica; abbiamo il 48% di analfabetismo di ritorno; 12 milioni di italiani non sono in grado di curarsi; secondo il Censis, 18,6 sono a rischio esclusione sociale: quasi uno su tre.
Mentre con la crisi cresceva e continua a crescere la povertà, in diversi si sono arricchiti. Questo dimostra che i soldi e le risorse ci sono, nonostante per anni ci hanno raccontato che non si poteva. In Italia, a metà 2017, il 20% più ricco degli italiani deteneva più del 66% della ricchezza nazionale netta. Nel periodo 2006-2016, il reddito nazionale disponibile lordo del 10% più povero degli italiani è diminuito del 23,1%. Sono dati che denunciano una vera e propria guerra contro ceti medi e ceti popolari, ancora più amari se poi scopriamo che il numero di miliardari in Italia e in Europa sono triplicati: 342. Da questa condizione sono stati diversi a trarne vantaggio, e tra questi le mafie, che con la crisi fanno grandissimi affari e non solo. Grazie ai tagli al sociale e all’aumento della povertà sono riusciti a far crescere di molto la loro capacità di penetrazione culturale, economica e sociale nelle tante periferie del nostro Paese, costruendo un vero e proprio “esercito di mano d’opera di riserva”. Ormai il welfare sostitutivo delle mafie sta prendendo il posto lasciato vacante da una politica sempre più distante dalla condizione materiale ed esistenziale della maggior parte della popolazione. Ma se c’è un potere criminale che ha tratto vantaggio dalla crisi e dall’assenza di forze politiche che facessero della lotta contro disuguaglianze e mafie le loro priorità, è anche vero che esiste una criminalità del potere, come ci confermano i numeri.
Di chi sono le responsabilità? Cosa e chi ha causato questa catastrofe sociale e quali sono le risposte da mettere in campo? Le cause dell’aumento smisurato di disuguaglianze e povertà sono diverse.
Ne elenco alcune che riteniamo siano determinanti:
- politiche sociali viste come un costo e non come un investimento e un obbligo, così come prevede la nostra Costituzione – il Fondo Nazionale Politiche Sociali è passato dai tempi di Romano Prodi da 3,2 miliardi di euro ad appena 99 milioni attuali;
- l’assenza di una misura di sostegno al reddito, così come ci chiede l’Europa dal 1992 e come previsto dall’art. 34 della Carta di Nizza che “costituzionalizza” a livello europeo “il diritto al reddito”, stabilendo che nessun cittadino europeo debba scendere sotto la soglia del 60% del reddito mediano pro capite del Paese di origine, indicata questa come soglia della “dignità” da non valicare;
- politiche fiscali regressive e l’assenza di vere misure di contrasto all’evasione fiscale che è ormai la più alta in Europa;
- politiche di austerità, che solo il nostro Paese ha voluto introdurre addirittura in Costituzione, con la modifica dell’articolo 81 che impone il pareggio di bilancio – secondo i dati dell’IFEL (la Fondazione dell’ANCI per la Finanza e l’Economia Locale), questo significa 19 miliardi di trasferimenti in meno ai Comuni e il ribaltamento delle priorità della politica, non più tesa all’interesse generale ma a garantire gli interessi che favoriscono la finanza e la speculazione internazionale, anche se questo significa sacrificare la dignità di milioni di persone;
- politiche sul lavoro sbagliate che hanno favorito l’insicurezza sociale, la precarizzazione e abbassato i salari;
- l’assenza di un piano industriale concordato con i lavoratori e le comunità territoriali per imporre l’agenda della riconversione ecologica delle attività produttive e della filiera energetica così da generare una nuova base produttiva sostenibile e ad alta intensità di lavoro;
- il peggioramento nell’accesso e nella qualità dell’utilizzo dei servizi basici essenziali;
- le scelte fatte sul Bilancio che hanno allargato il debito, rendendone una parte illegittima.
Il nostro sistema di protezione sociale non funziona più da tempo, come denunciato nel maggio 2016 in Parlamento da Giorgio Alleva, il presidente dell’ISTAT, che lo ha definito tra i meno efficaci a livello europeo. Perché se è vero che la crisi ha una matrice internazionale e scaturisce dall’impossibilità del modello di sviluppo capitalista di garantire sostenibilità sociale e ambientale, è vero anche che il nostro Paese è riuscito a fare quasi peggio di tutti, schierando risposte che non hanno attutito l’impatto della crisi ma l’hanno amplificata. Chi ha governato in questi ultimi dieci anni è quindi responsabile dell’aumento smisurato di povertà e disuguaglianze nel nostro Paese. Sono gli stessi rapporti ISTAT a svelarcelo. Se analizziamo i dati notiamo che il tasso di persone a rischio povertà dopo i trasferimenti si riduceva di soli 5,3 punti a fronte di una riduzione media dell’UE a 27 Paesi di circa 9 punti. Le disparità all’interno dell’Unione sono notevoli. La lettura dei dati ci consente di valutare la capacità dei regimi di welfare di proteggere le persone dal rischio povertà anche in tempi di crisi. Dall’analisi viene fuori in maniera incontrovertibile come il nostro sistema sia completamente inadeguato a far fronte all’aumento delle disuguaglianze che continueranno a crescere anche nei prossimi anni. Solo la Grecia sino allo scorso anno aveva fatto peggio di noi, con trasferimenti sociali che riducevano il rischio povertà solo del 3,9.
Come dire che si poteva e si doveva fare molto di più e che è falso dire che la crisi dipende esclusivamente dalle politiche di austerità imposte in Europa. Queste ultime determinano solo una parte dell’aumento delle disuguaglianze. La parte maggiore è imputabile alle disastrose scelte politiche fatte in questi anni. Per questo l’aumento del PIL non si traduce in miglioramenti per coloro che sono a rischio: anzi il divario cresce perché non ci sono meccanismi redistributivi né fiscali né sociali e perché non disponiamo di un sistema di protezione sociale all’altezza della sfida e con l’adeguata dotazione di risorse economiche. In un tessuto sociale così diseguale e impoverito anche quando la crescita si traduce in un aumento dell’occupazione, lo fa attraverso lavori a bassa qualifica e a bassa retribuzione, non consentendo ai salari di incidere sui livelli di povertà crescenti, contribuendo così a ridefinire al ribasso la struttura e la qualità della nostra società.
RDG: I dati mostrano che i poveri popolano soprattutto le grandi città, e i capoluoghi. Le politiche della città dovrebbero e potrebbero contemplare misure adatte a contrastare le povertà urbane, non solo sul piano del sostegno al reddito, ma anche su quello dei servizi, dell’inclusione. Si assiste, invece, al moltiplicarsi di risposte securitarie, di controllo ed espulsione dei più poveri dal tessuto urbano, il decreto Minniti è stato adottato con slancio ed entusiasmo repressivo dai sindaci di tutti i colori ed è facile ipotizzare che sarà pure peggio con il nuovo decreto di Salvini su sicurezza e immigrati. Credi che vi sia la possibilità di invertire e contrastare questa che sembra una tendenza inarrestabile, in corso da almeno un decennio? E a quali condizioni e con quali alleanze?
GDM: Noi abbiamo il diritto, il dovere e la responsabilità di invertire la rotta. Non c’è altra strada che non sia quella di lavorare in questa direzione, considerato che le politiche in campo continueranno a far aumentare disuguaglianze, precarietà e insicurezza sociale. La riuscita, però, dipende dalla capacità di costruire un nuovo blocco sociale che porti avanti politiche che garantiscano il diritto all’esistenza per tutti e tutte. Noi, nel nostro piccolo, proviamo a impegnarci seguendo i quattro punti cardinali della nostra bussola:
- nord) mutualismo sociale – perché dobbiamo sporcarci le mani sul campo per essere credibili con noi stessi e con le persone con le quali vogliamo costruire una relazione, attraverso mense, corsi, doposcuola, casse di mutuo soccorso e progetti indispensabili per dare risposte concrete e fare comunità;
- est) alleanze sociali – perché dobbiamo essere capaci di accettare il corpo a corpo sul territorio, così da essere più forti nelle richieste e vertenze nei confronti delle istituzioni rappresentative e, dove possibile, tirare dentro la rete anche istituzioni locali che vogliano concretamente impegnarsi sulla nostra agenda;
- ovest) iniziativa politica – che per noi è azione collettiva davanti alla digitalizzazione delle esistenze e all’illusione della democrazia dell’etere, continuando a realizzare attività e mobilitazioni che sappiano attivare un gran numero di persone, costruire il “noi”, rispondendo all’azione dell’attuale governo e alla fase storica caratterizzata da una pesante involuzione culturale e da pratiche politiche sempre più personalistiche;
- sud) nuovo orizzonte – abbiamo l’esigenza e l’urgenza di declinare il futuro che vorremmo per noi e per la società, immaginando che tipo di mondo ci aspetta e come vorremmo cambiarlo.
Non possiamo accettare una politica che agisce sempre e solo nell’emergenza, senza spazi per il futuro. Dobbiamo noi declinare il modello di società e di economia che vorremmo, vista l’assenza di qualsiasi alternativa che non sia interna alla visione dominante della governance. Vogliamo contribuire con tanti a dare forza a un’economia che persegua il “buon vivere”, in cui la relazione tra giustizia sociale, ambientale ed ecologica e il diritto della vita alla vita sono al centro di un nuovo paradigma di civilizzazione. Non è una utopia bensì il lavoro che si sta già facendo da metà degli anni Novanta del Novecento, che oggi trova un interlocutore privilegiato in Papa Francesco che con la sua Laudato Si’ ha materializzato la possibilità di lavorare anche da noi in questa direzione.
Abbiamo bisogno di invertire la rotta rispetto all’accettazione delle politiche liberiste in campo, ma dobbiamo sapere in che direzione andare. Più che il diritto alla resistenza, dobbiamo insieme ricostruire e dare senso e gambe al diritto alla Ri-esistenza. Il paradosso, infatti, è che in assenza di un blocco sociale e politico che denunci e sfidi con proposte concrete e iniziative politiche i fallimenti e le crisi provocate dal modello capitalista, siano le destre a continuare a capitalizzare a loro vantaggio l’aumento della povertà. Questo avviene perché esiste una povertà culturale e relazionale, per certi versi peggiore di quella economica, che in assenza di alternative si sta traducendo in “guerra tra poveri” e in benzina per il virus sempre latente del nazionalismo e della xenofobia. Sono convinto, come sostiene da tempo il professore portoghese Boaventura De Sousa Santos, che i modelli e le risposte dell’Ottocento e del Novecento oggi non siano più efficaci dinanzi alla complessità della crisi: non sono in grado di scioglierla. Una crisi che è inedita, strutturale e sistemica. Mai prima d’ora ci siamo trovati ad affrontare una crisi che intreccia tante crisi: economica, ecologica, migratoria, energetica, alimentare, culturale, politica. Per questo abbiamo bisogno di rispondere a politiche classiste, escludenti e oggi apertamente razziste, non solo attraverso la lotta, il mutualismo e la contestazione ma anche attraverso la costruzione di un nuovo orizzonte che sappia sciogliere le paure sociali e indicare una prospettiva che ci faccia vivere bene. Non è affatto impossibile, basta alzare lo sguardo e accettare di non essere il centro del mondo ma semplicemente di esserne parte. La Rete su questo farà il suo, ma è solo un pezzo di un campo che deve e può essere più grande e plurale.
RDG: All’inizio di settembre, il ministro Salvini ha annunciato una stretta sugli sgomberi delle case occupate, si tratti di edilizia popolare o di centri sociali. In molte città le occupazioni “tamponano” situazioni gravissime, dando un tetto a famiglie, minori, anziani, migranti per i quali la non-politica della casa in Italia non ha risposte. Come si stanno ridisegnando le sfide che il movimento per la casa si trova a fronteggiare? Quale strategia si stanno dando la Rete e i movimenti?
GDM: Sono i movimenti che si battono per il diritto all’abitare che in questo momento stanno ricordando a tutti noi le responsabilità e le priorità che dovrebbe avere la politica, così come stabilito dalla nostra Costituzione: prima si garantiscono quelli che Stefano Rodotà chiamava “super diritti”, quelli sociali per capirci, e poi vengono gli altri. È il primo dovere della Repubblica. Quando invece un ministro arriva ad affermare che è la proprietà privata a essere “sacra”, evidentemente l’asse delle priorità è altrove rispetto alla Carta, forse più a Francoforte. La vita è sacra, non certo la proprietà privata. Ma l’affermazione del ministro tradisce più di una prospettiva. La nostra Costituzione si fonda sul concetto di sovranità che viene esercitata sul territorio, il bene comune degli italiani. Il giurista Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale, ha abbondantemente spiegato che senza proprietà collettiva non potremmo esercitare la sovranità e dunque perseguire l’interesse generale. Pertanto, parlare di proprietà privata come “sacra” non è solo una bestialità giuridica ma un manifesto di intenzioni eversive rispetto all’etica posta al centro della nostra Carta, costruita per perseguire “l’intangibilità della dignità umana”. Se il privato supera e domina il pubblico, l’interesse generale e la democrazia non esistono più, insieme alla sovranità popolare e alla società del diritto. A quel punto si ritorna al medioevo, al diritto di censo e al diritto naturale: i diritti smettono di essere tali perché sono disponibili solo per chi è ricco, mentre il pesce grande mangia quello piccolo. Se accettiamo che, in assenza di alternative, chi non riesce a pagarsi un affitto ed è costretto a occupare per morosità incolpevole un bene pubblico dismesso o un bene privato abbandonato da tempo, deve essere per questo perseguitato, stigmatizzato e trattato da delinquente, è tutta la nostra società che farà un balzo indietro nel medioevo giuridico e politico. Rischiamo di perdere la voce. È proprio il sindacato che mi ha sempre insegnato che i diritti vanno difesi, oltre che conquistati, perché non sono immutabili. Rischiamo di uscire dalla crisi con meno diritti e meno democrazia. Se il governo pensa di continuare a distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi, facendoci credere che la soluzione della crisi si trova nell’annichilimento dei poveri e dei migranti, abbiamo tutti il dovere di essere al fianco dei movimenti che difendono il diritto all’abitare nei termini esposti. Sia chiaro che la strategia non è l’illegalità: illegale è la povertà, come ci insegna la nostra Costituzione. Il punto è che in nome della legalità si stanno violando diritti sociali e si stanno compiendo delle ingiustizie. Noi dobbiamo distinguere per non confondere, riuscire con il ragionamento, l’impegno e il lavoro a discutere di questo con tutti, così da farci le domande giuste e trovare le risposte adeguate. Se non vogliamo che il narcisismo cinico del ministro dell’Interno rappresenti l’unico orizzonte di senso comune, siamo tutti chiamati in causa per costruirne un altro.
RDG: I dati sull’erogazione del Reddito di Inclusione, il REI, nel primo trimestre 2018 parlano di 110.000 famiglie a cui è pervenuto un contributo medio di 297 euro: si tratta di nemmeno un decimo di quelle in condizione di povertà assoluta, che sono 1.778.000, e che avrebbero bisogno di ben altre cifre. Il dibattito politico si accende, attorno alla questione del (peraltro impropriamente detto) reddito di cittadinanza proposto da M5S, che dovrebbe alla fin fine almeno ampliare la platea degli aventi diritto al REI. Tra vincoli di spesa e vincoli comunitari, con il paradosso di una sinistra che fa muro contro, e il rischio rottura nella compagine di governo. La Rete da sempre promuove e si schiera per una misura di reddito minimo garantito: come vi ponete rispetto al dibattito attuale?
GDM: Che il centrosinistra nel precedente governo abbia perso l’occasione storica di costruire finalmente un’agenda condivisa con le reti sociali e con la nuova “società in movimento” è stato certificato dagli esiti delle ultime elezioni dello scorso 4 marzo. Il REI, che come tu ricordavi non raggiunge nemmeno un decimo delle persone in povertà assoluta e lo fa con una cifra inadeguata, è una misura sbagliata per tante ragioni. Il fatto di non raggiungere nemmeno la platea definita dallo stesso governo ha introdotto nel Paese forme di universalismo selettivo che hanno istituzionalizzato la povertà e alimentato la guerra tra poveri. Del resto, il REI viola tutti i principi stabiliti dall’Unione e dalla Commissione Europea su quelle che sono le caratteristiche che definiscono i regimi di “reddito minimo garantito”: la durata, la congruità della richiesta di lavoro, la condizionalità, l’individualità, l’ammontare del beneficio (almeno il 60% del reddito mediano come stabilito dall’art. 34 della Carta di Nizza). Il REI è uno strumento più di controllo della povertà che di contrasto alla povertà, e risponde più all’esigenza di costruire “occupabilità” con salari più bassi e con maggiore precarietà. E non regge nemmeno la teoria secondo la quale l’unico strumento che garantisce dignità è il lavoro e che vede il reddito minimo garantito come controproducente e in contrapposizione. Forse poteva essere vero molto tempo fa, in altri contesti, con un forte intervento sul welfare, senza la globalizzazione finanziaria, con maggiori diritti sul lavoro, con una zona grigia ridotta, con un livello nettamente migliore di distribuzione della ricchezza. Ma non oggi.
E qui si apre il dilemma: visto che la piena occupazione in regime capitalista non si può raggiungere, considerando che avremo milioni di disoccupati in forma strutturale e che la precarizzazione sarà favorita anche dalla gig economy e dai processi di automazione e digitalizzazione del lavoro (la cosiddetta fase di “distruzione creativa” del capitale), considerando che saranno le mafie, come abbiamo visto, a intercettare la richiesta di bisogno di lavoro e reddito che emerge dai nuovi poveri nelle periferie, considerando che cresce la zona grigia, come difendiamo e costruiamo nuovi posti di lavoro capaci di garantire la dignità? Intendiamo lavoro dignitoso e continuativo, o si intende altro? Il diritto al lavoro non è in contraddizione con il diritto al reddito, anzi lo integra in questa nuova fase della storia, non lo indebolisce di certo. Ed è a nostro avviso l’unica strada in grado di coniugare solidarietà e dinamismo economico e produttivo. Noi vorremmo aprire un confronto serio anche con la CGIL su questo, perché non affrontare un tema epocale di questa portata significa regalarlo alle semplificazioni e ai luoghi comuni. Semplificazioni e luoghi comuni sono sempre un male per i lavoratori e in generale per chi è in difficoltà o è escluso.
Noi stiamo costruendo il dibattito sul diritto al reddito da anni a partire dall’esigenza di portare avanti proposte, azioni e attività che garantiscono e affermino lo “ius existentiae”. È il nostro sistema di misura. Il reddito minimo garantito non è, quindi, un totem ma uno strumento che ha nella lotta alle disuguaglianze, alla povertà, alle mafie e al razzismo la propria dimensione. Nella stessa Rete dei Numeri Pari ci sono sfumature diverse tra chi propone il reddito di base, ad esempio, o altre sperimentazioni. Ma sono la concretezza e l’iniziativa politica condivisa che ci premono più di tutti i sofismi in questa fase drammatica per molti milioni di nostri concittadini. Non ci possiamo permettere altro. Una concretezza che però non può portarci ad accontentarci delle briciole o di forme di intervento che privano della dignità e dell’autonomia chi già vive condizioni difficili o addirittura difficilissime, com’è stato nel caso del REI. Per questo chiediamo di introdurre anche in Italia una misura, che noi definiamo “reddito di dignità”, per portare tutti coloro che non ce la fanno, non hanno altre entrate di nessun tipo, ad avere un reddito mensile complessivo di circa 800 euro. Secondo i calcoli fatti tempo fa con l’ISTAT, parliamo di un investimento di circa 16 miliardi. Risorse che servono per contrastare la povertà, garantire sicurezza a coloro che non possono lavorare o accedere a sistemi di sicurezza sociale, rispondere al ricatto esercitato delle mafie su quei soggetti ai margini, precari, sfruttati, rilanciare l’economia sostenendo la domanda aggregata, liberando nuove energie sociali.
Del resto, l’Europa considera i regimi di reddito minimo garantito come strumenti di lotta alla crisi e non come fattori di costo. Nei “social pillar” europei, infatti, si affermano come indispensabili tre misure per combattere le disuguaglianze e la povertà: il reddito minimo garantito, un’offerta di servizi di base di qualità e il diritto alla casa. Tutti i soggetti che fanno parte della rete condividono questa impostazione e questi obiettivi, che riteniamo indispensabili e urgenti per garantire la dignità e contrastare la crisi causata proprio dall’aumento delle disuguaglianze. Allo stesso tempo, considerando l’attuale fase storica, i Social Pillar rappresentano a nostro avviso l’unico terreno di concretezza sul quale ricostruire un’agenda politica europea condivisa da soggetti sociali e sindacali per dare risposte a ceti medi e ceti popolari, in alternativa a chi invece si rifugia nei nazionalismi rafforzando il senso comune che vede nei migranti e nei poveri l’origine dei propri problemi.
Su questo dobbiamo continuare in maniera efficace ad allargare le alleanze, spiegando come stanno le cose con grande sincerità e determinazione, per dare allo stesso tempo forza al processo politico che sta unendo pezzi diversi sulla battaglia per i diritti, che non possono e non devono mai essere in contrapposizione, come invece vorrebbero farci credere. In tutti i luoghi, a partire dai più difficili, dove abbiamo lavorato in questa direzione, con queste pratiche, i risultati sono stati sorprendenti e i luoghi comuni spazzati via.
Dopo la conferenza nazionale sul Reddito promossa lo scorso 14 e 15 febbraio alla Casa Internazionale delle Donne, abbiamo promosso l’assemblea nazionale per il diritto al Reddito lo scorso 17 ottobre, in occasione della Giornata mondiale per l’eradicazione della povertà. Ci siamo rivolti al governo del M5S e della Lega, ma anche in questo caso non arrivano le risposte e la disponibilità al confronto. Nonostante il M5S avesse firmato sin dal 2013 la nostra proposta di Reddito di Dignità, come quella che chiede i servizi sociali fuori dal patto di stabilità. Noi continueremo a cercare sui contenuti e sugli obiettivi il confronto con tutti e ovviamente ci auguriamo che una misura di reddito minimo garantito di stampo europeo si faccia il prima possibile. Ma non possiamo più delegare le nostre vite e i nostri diritti ai partiti in Parlamento o alla democrazia dell’etere. Per questo stiamo continuando a lavorare nelle città, costruendo seminari, assemblee, iniziative, mutualismo solidale, coinvolgendo dove possibile anche le istituzioni locali, così da rafforzare il senso comune sul tema, accumulare alleanze e sapere. Siamo consapevoli che la battaglia per il diritto al reddito e per riconnetterlo al diritto al lavoro è ancora lunga.
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Giuseppe De Marzo: classe 1973. Economista, giornalista, attivista e scrittore, ha lavorato per dieci anni sul campo con i movimenti sociali latinoamericani al fianco delle popolazioni indigene e rurali. Nel 2002 viene arrestato in Ecuador per le sue attività contro le multinazionali petrolifere. Nel 2003 è tra i fondatori di A Sud e nel 2007 del CDCA, il primo Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali dei Sud del mondo. Nel 2011 è stato tra i promotori e tra i coordinatori della campagna referendaria per l’acqua pubblica e contro il nucleare. In Italia lavora con don Ciotti, Libera e Gruppo Abele assieme a comitati, associazioni, centri di ricerca e sindacati. Nel 2017 ha fondato la Rete dei Numeri Pari di cui è attualmente Coordinatore. Collabora con diverse testate giornalistiche, tra cui “il manifesto”, ed è membro di diversi Forum internazionali. È autore o coautore di testi e saggi, tra cui: Conflitti Ambientali – Biodiversità e democrazia della Terra (Edizioni Ambiente, 2011); Il sangue della Terra – Atlante geografico del petrolio: multinazionali e resistenze indigene nell’Amazzonia ecuadoriana (Derive e Approdi, 2006); Da Seattle a Porto Alegre (Edizioni Sheiwiller, 2002); La Società dei beni comuni (a cura di Paolo Cacciari, Ediesse editore, 2011); Buen Vivir – Per una nuova Democrazia della Terra (Ediesse editore, 2009); Grammatica dell’indignazione (a cura di Livio Pepino e Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2013); Indicativo Futuro (Edizioni Gruppo Abele, 2017); Così va il mondo (con Gianni Minà, Edizioni Gruppo Abele, 2017); Anatomia di una rivoluzione (Castelvecchi, 2012); Per Amore della Terra (Castelvecchi, 2018).
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