Salvare Radio Radicale, una missione per tutti
«Quando nel 1976 Marco Pannella entrava alla Camera dove era stato appena eletto, si metteva subito a raccogliere tutti gli stenografici degli interventi integrali dei deputati – che a quel tempo non venivano conservati ma erano destinati al macero – e poi li fotocopiava e li distribuiva. Ecco: “conoscere per deliberare” è nel Dna radicale». Nel secondo giorno dell’8° Congresso del Partito Radicale nonviolento transnazionale e transpartito (Prntt), Rita Bernardini, che siede al tavolo della presidenza insieme a Sergio D’Elia e Maurizio Turco, evoca l’amato leader scomparso quasi tre anni fa per ricordare alla cronista del manifesto che la decisione di Radio Radicale di concentrare tutte le forze per fornire un reale servizio pubblico al Paese, non è solo una scelta di campo ma è una vocazione.
Che ha radici profonde, affondate in quel «diritto alla conoscenza» che Pannella considerava tra i principali dell’essere umano e che fu la sua ultima battaglia. Il congresso del Prntt non poteva dunque che essere incentrato, quest’anno, sulla lotta per la sopravvivenza che Radio Radicale è nuovamente costretta ad affrontare a causa dei tagli alla convenzione con il Mise (dagli 8 milioni al netto dell’Iva, ai 4 milioni previsti da quest’anno) e di quelli all’editoria, scientemente assestati dal governo giallobruno all’«organo della lista Marco Pannella» così come ai quotidiani editi da cooperative, tra i quali il manifesto.
Colpi di mannaia sulla libertà di informazione volutamente calati, nel caso della radio, proprio «per evitare che i cittadini possano ascoltare tutto quello che viene detto in Parlamento», come ha sottolineato il primo giorno Massimo Bordin, già direttore della radio e curatore della seguitissima rassegna stampa mattutina.
D’altronde per raccontare la realtà senza censure o retorica (cosa molto difficile, a qualunque latitudine), come è suo solito, Radio Radicale fa molto di più che seguire i lavori delle Aule di Camera e Senato, alla maniera di Rai Gr Parlamento: fa entrare i microfoni nelle commissioni, registra le audizioni, i processi, le inaugurazioni dell’anno giudiziario, i congressi di partito, i convegni sindacali, le sedute del Consiglio superiore della magistratura. Motivo per il quale anche il vicepresidente del Csm, David Ermini, nel rivolgere un saluto agli iscritti riuniti nell’hotel Quirinale di via Nazionale, ha giudicato «atto ingiusto e grave» l’attentato alla storica emittente radiofonica. Il cui valore sta anche nel preziosissimo archivio che contiene quarant’anni di documenti audio.
Un pezzo di storia italiana che neppure Giulio Andreotti avrebbe pensato di chiudere, almeno stando a quanto riportato da suo figlio Stefano che in un’intervista a Michele Lembo ha rivelato come suo padre avesse seguito il proprio processo giudiziario ascoltandolo da quella che era allora la radio più distante possibile dalle sue posizioni politiche.
«I tagli all’editoria, la compressione generale impressa a tutte le attività culturali e il colpo al cuore di Radio Radicale dimostrano un’iniziativa governativa volta a far crescere l’ignoranza», ha affermato nel suo intervento Vincenzo Vita. Ma la “scomodità” politica dell’emittente sta anche, come hanno fatto notare molti interventi, nella sua agenda politica, fatta di giustizia, di carcere, di diritti umani e civili, dal fine vita alle droghe, dagli abusi dello Stato democratico alla repressione delle dittature.
E nel vizio all’«osservazione», come ha sottolineato il Garante dei detenuti Mauro Palma: «Anche la fisica ci insegna che l’osservazione non è neutra, è un intervento attivo che modifica l’evento osservato». E infatti la paura, di chi vuole cambiare tutto per non cambiare niente, è lo sguardo del cittadino. Prendiamo il carcere: «L’aumento dei detenuti è dovuto non ad un surplus di ingressi ma ad un calo drastico delle uscite – ha riferito Mauro Palma – 1800 persone in questo momento stanno scontando in carcere una pena inferiore ad un anno, ed è per evidente minorità sociale (non hanno buoni avvocati, per esempio). Il diritto alla conoscenza serve anche per combattere le condizioni di minorità sociale.
Tanto più perché il modello penale si sta esportando anche fuori dal carcere, come dimostra il decreto sicurezza che ha istituito 3 nuovi modi di intrattenimento e 4 nuovi luoghi per detenere». I tempi sono bui, ha concluso Palma: «Mai avrei pensato di dovermi difendere da minacce che vengono dai corpi di polizia». E allora difendiamoci, esorta Palma, perché «senza costruttori culturali, cresce soltanto la cultura populista».
* Fonte: Eleonora Martini, IL MANIFESTO
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