Guerra in Afghanistan. Gli USA si ritirano, la dottrina Asia traballa

Guerra in Afghanistan. Gli USA si ritirano, la dottrina Asia traballa

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Via le truppe dai teatri di guerra. Lo aveva promesso in campagna elettorale, per poi lasciarsi convincere dai generali. Ora il presidente Trump torna sulle posizioni originarie. Il giorno successivo all’annuncio del ritiro dei soldati dalla Siria, ha fatto trapelare sui media l’intenzione di voler ritirare circa 7mila dei 14mila soldati americani in Afghanistan.

Un’inversione di marcia rispetto all’estate del 2017 quando, presentando la «nuova» dottrina per l’Asia del sud, dopo aver criticato il predecessore Barack Obama aveva assicurato che sarebbero state «le condizioni sul terreno – non un calendario arbitrario – a guidare la nostra strategia d’ora in avanti». Secondo l’ultimo rapporto semestrale Enhancing Security and Stability in Afghanistan del Dipartimento della Difesa degli Stati uniti, reso pubblico in questi giorni, le condizioni sul terreno sono peggiorate rispetto al 2017. Ma Trump sembra voler riportare i soldati a stelle e strisce a casa.

Anche se per ora non è dato sapere quanti, come e quando – informazioni essenziali –, nei palazzi del potere di Kabul la notizia è stata accolta con preoccupazione. Il governo di unità nazionale afghano dipende dal portafogli e dal sostegno militare e politico degli Stati uniti. In termini operativi le forze di sicurezza locali sono ancora dipendenti dagli stranieri, in particolare dagli Usa (e dalla loro flotta aerea).

E dal punto di vista finanziario, «l’autosufficienza nel 2024 non appare realistica», recita il rapporto già citato. A Kabul, inoltre, si teme un effetto «liberi tutti» nelle cancellerie occidentali, già affaticate e riluttanti a investire nel Paese asiatico.

La vera questione, però, è capire se e come la decisione di Trump sia legata ai colloqui di pace con i Talebani. Il presidente statunitense vuole portare a casa un accordo prima delle elezioni presidenziali afghane del 19 aprile 2019. Nei giorni scorsi l’inviato speciale Zalmay Khalilzad ha presieduto negli Emirati arabi a un importante giro di colloqui con pezzi grossi dei Talebani (e con esponenti dei governi saudita e pachistano).

Ora, le ipotesi sono due: la prima è che il ritiro faccia parte della strategia negoziale. Trump potrebbe aver accontentato almeno in parte i barbuti, forse per ottenere proprio quel cessate il fuoco di cui si è discusso negli Emirati arabi. La seconda ipotesi è che Trump abbia bruciato il suo inviato Khalilzad, facendo trapelare una decisione che non era stata concordata. In questo caso, i Talebani porterebbero a casa un bel regalo, senza contropartite. Ne uscirebbero rafforzati sul piano negoziale, nei confronti sia degli americani sia del governo di Kabul.

A Trump sembra importare poco. E poco gli importa ciò che si lascia dietro, le macerie materiali e sociali, le vite umane sacrificate. È tempo di tornare a casa. «Time to come home & rebuild». A ricostruire l’Afghanistan, che ci pensi qualcun altro.

* Fonte: Giuliano Battiston, IL MANIFESTO



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