Addio a Samir Amin, uno degli ultimi grandi intellettuali

Addio a Samir Amin, uno degli ultimi grandi intellettuali

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La mia mail si è riempita in poche ore: messaggi da ogni parte del mondo per la morte di Samir Amin. Uno schiaffo, perché la scomparsa non è stata annunciata da una lunga malattia ma da un recente trasferimento da Dakar in un ospedale di Parigi. Isabelle, la sua compagna da più di mezzo secolo, presente al decesso inatteso, tornata a casa si è sentita mancare, si è rotta il femore ed ora è a sua volta in ospedale; e così allo scoramento si aggiunge la tristezza di non poterla nemmeno abbracciare per telefono.

La provenienza dei messaggi – Africa soprattutto ma anche Asia America Latina Europa – testimoniano di per sé la personalità e il ruolo che ha avuto nella sinistra mondiale: non solo come marxista capace di aggiornare senza dogmatismi il suo pensiero agli sconvolgenti mutamenti del dopoguerra, ma come militante politico. Uno degli ultimi grandi intellettuali impegnati a 180 gradi nelle battaglie dei movimenti di questo scorcio di secolo, sempre pronto a partecipare e a confrontarsi coi ragazzi come chiunque abbia preso parte ai Forum Sociali Mondiali sa bene. Portando in ogni assemblea il suo ostinato ottimismo della volontà: «Dobbiamo costruire la V Internazionale», ci ammoniva, e non si stancava di ripeterlo, sebbene i Forum, gli appuntamenti più variopinti della storia, facessero talvolta fatica a capire il messaggio; ma aveva ragione Samir ad insistere che gli arcobaleni sono belli ma non bastano se si vuole costruire «l’altro mondo possibile».

Ma per tutti i partecipanti la sua autorità è stata indiscussa. Ha avuto impatto anche la sua ultima sfuriata contro i catalani: «L’ideologia dominante – ha scritto ancora pochi mesi fa – ha così raggiunto il suo obiettivo: sostituire alla priorità della coscienza sociale il primato di altre identità, in questo caso nazionale. E’una deriva tragica». E, aveva aggiunto dopo aver assistito a un dibattito a Barcellona: «Ho sentito uno solo dei presenti, uno di Podemos, dire che non avrebbero mai sostenuto un governo di destra ancorché catalano».

Per noi del manifesto Samir Amin è stato molto importante: l’abbiamo conosciuto all’inizio degli anni ’70, ricordo ancora il primo incontro a casa mia, con lui altri due egiziani, i loro nomi coperti da un unico poi divenuto celebre pseudonimo – Mahmud Hussein (il loro primo libro ci fece scoprire la lotta di classe nell’Egitto di Nasser) – e anche, non ricordo se già la prima volta o solo la seconda, con lui anche André Gunder Frank, tedesco ma ormai da tempo cileno.

Erano i primi marxisti del terzo mondo, e ci insegnarono a ragionare in termini globali, fuori dal ghetto eurocentrico, e dunque di cosa significava “l’accumulazione su scala mondiale”. Se il manifesto è stato l’espressione di una sinistra ricca e articolata, lo dobbiamo a questo innesto. Che non ebbe mai i caratteri di un terzomondismo disinteressato alle problematiche del capitalismo avanzato, o, peggio, venato da diffidenze identitarie. Samir è stato infatti protagonista di tutte le reti internazionali marxiste, ortodosse e eterodosse, che da cinquant’anni a questa parte hanno animato il dibattito della sinistra mondiale: gli annuali incontri a New York della Socialist Scholars Conference, oggi Left Conference, così come, per fare un altro esempio, della Round Table for Socialism che, anche questa ogni anno fino alla fine della Jugoslavia, si teneva a Cavtat, presenti, anche nel furore della rottura, sovietici e cinesi albanesi e americani (Sweezy sempre), il Pci come il manifesto.

Vorrei ricordare due incontri fra gli ultimi con Samir, e scusatemi se mi riguardano: uno, ormai già lontano, in occasione del suo ottantesimo compleanno. I suoi compagni egiziani invitarono una ventina di amici provenienti da tutto il mondo per un simposium in suo onore che si tenne a bordo di una nave partita da Assuan per percorrere tutto il Nilo, a bordo ogni giorno un confronto su temi diversi, in ogni porto una visita alle meraviglie dell’antico Egitto di cui Samir non finiva di essere orgoglioso. L’ultimo, non molti mesi fa, a Mosca, per il centenario della rivoluzione d’Ottobre. Eravamo stati ambedue invitati dal gruppo “Alternative” di Alex Buzgalin, comunisti ma non ortodossi, che avevano organizzato una straordinaria conferenza internazionale sul ’17. Per la seduta conclusiva Alex, che è anche un compagno stravagante, aveva allestito un teatrino chiedendo ad alcuni di noi di impersonare un protagonista della storia e di improvvisare uno show. A me toccò essere Alexandra Kollontaj, a Samir Stalin, a un compagno greco Trozki, e così via. Prima fra chi doveva prendere la parola, chiesi a Samir:

«Compagno Stalin, ma era proprio necessario assassinare Trozki?». E Samir, pronto, mi ha risposto:«No, no, è stato un vero errore. Un errore dei miei servizi di informazione: mi avevano detto che era ancora importante e invece non contava più nulla, perciò è stato del tutto inutile». Perché Samir era anche molto, molto spiritoso.

* Fonte: Luciana Castellina, IL MANIFESTO



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