Le stragi dei braccianti. Dignità solo da morti

Le stragi dei braccianti. Dignità solo da morti

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I sedici esseri umani che hanno perso la vita in questi ultimi giorni sulle assolate rotte della via del pomodoro sono caduti in una terra dove, a quanto pare, l’intolleranza verso lo straniero è minima: effetto, secondo alcuni, del tradizionale senso di accoglienza e di apertura delle genti di Puglia. Ma, secondo altri, c’entra anche la convenienza: perché, specialmente nella stagione del raccolto, queste tante braccia aggiuntive fanno comodo. E dunque praticare lo sport nazionale dell’aggressività contro lo straniero sarebbe, oltre che inutile, dannoso.
Forse c’è del vero. La gente di Puglia è aperta e generosa, lo è sempre stata. E lo slancio, da queste parti, ha sempre prevalso sul calcolo. Ma la Puglia è, nello stesso tempo, la terra del caporalato, delle epiche lotte di Giuseppe Di Vittorio, dei canti amari e profondi di Matteo Salvatore, delle indiscutibili inchieste di Alessandro Leogrande. Si potrebbe però dire: questi poveracci non sono mica vittime di un agguato razzista o di uno scontro fra clan. Sono morti in incidenti stradali. Come centinaia di persone ogni anno. Fatalità, al massimo.
Allora perché scomodare il razzismo, il caporalato, i massimi sistemi? In realtà, il trasporto dei lavoratori per e dai campi è proprio uno dei core business del caporalato. Una buona parte della certo non lauta paga del bracciante se ne va proprio in trasporto.
È ancora presto per pronunciarsi sulla dinamica degli incidenti, ma le norme della legge Martina sulla lotta al caporalato che prevedono le convenzioni per il trasporto — norme pensate proprio per sottrarne il monopolio agli sfruttatori — non paiono aver trovato una completa applicazione. Ed è difficile pensare che nei campi i braccianti ( non solo gli stranieri, s’intende) se la spassino alla grande.
Ma queste morti suscitano altre riflessioni, se si vuole meno ” tecniche”. Noi, dello straniero che occupa ormai ossessivamente le nostre cronache, le nostre narrazioni, i nostri pensieri, in realtà non conosciamo quasi mai né il volto né il nome. Non ci interessa conoscerli. Lo chiamiamo, al più, migrante. Evoca diffidenza, rancore, un terrore che talora, ma sempre più raramente, mascheriamo di ipocrisia: porte aperte a chi fugge da guerre e carestie, nessuno spazio per i migranti economici, quelli li aiutiamo a casa loro.
Eppure. I sedici morti del Tavoliere e di Lesina erano migranti economici. Venivano dall’Europa dell’Est e dall’Africa nera, ripercorrevano le rotte che un tempo erano state di noi italiani, quando andavamo a cercar fortuna sotto la Statua della Libertà, navigando dagli Appennini alle Ande. Ora che sono morti cominciano ad acquistare un’identità più precisa. Da indistinti ” migranti” a ” stranieri braccianti”. Qualcuno ha preso persino a trascriverne i nomi.
Che tragedia paradossale: la morte ci ha costretti a prendere atto della loro esistenza nel momento in cui cessano di esistere. Non possiamo più considerarli fantasmi, i loro corpi ce lo impediscono. Sono state stroncate vite. Si è persa per sempre la possibilità di conoscere la loro storia, le traversie, i dolori, le gioie che li hanno segnati, che cosa li ha spinti così lontano, incontro a un destino che certo non desideravano né sognavano. Ora hanno riacquistato, nella morte, la dignità di persone, non più numeri, unità produttive, qualifiche operative, voci di reddito. Una dignità a prova di fake news. Facciamo in modo che non resti l’unica dignità possibile.

* Fonte: Giancarlo De Cataldo, LA REPUBBLICA



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