Almeno 300 leader sociali assassinati in Colombia dal 2016
Intanto il neo presidente Duque, figlioccio di Uribe, cancella mezzo accordo con le Farc
«In altri luoghi della terra, queste donne e questi uomini sarebbero eroi nazionali. Qui, invece, li uccidiamo». Così il 6 luglio si è rivolto ai familiari dei dirigenti assassinati il gesuita Francisco De Roux, il presidente della Comisión de la Verdad incaricata di far luce sui crimini commessi durante gli anni del conflitto armato colombiano, il cui mandato di tre anni e sei mesi è iniziato ufficialmente l’8 maggio.
Descrivendo i leader sociali uccisi dalle organizzazioni armate come persone disposte a lottare in maniera nonviolenta «a favore della dignità della propria gente», insegnando a «non abbassare la testa di fronte a nessuno», De Roux ha ringraziato i familiari delle vittime per il contributo offerto nell’elaborazione del rapporto Difendere la vita, in cui vengono riportati dieci casi paradigmatici di minacce, persecuzioni e assassinii relativi agli anni 2002-2015, tratti da una lista che da allora non ha fatto che allungarsi.
Tre leader sociali in lotta per la restituzione delle terre sono stati uccisi venerdì scorso in aree diverse del Paese (Antioquia, Tolima e Caquetá) e un altro – Fernando Gómez dell’Associazione mista indigena e contadina – è stato assassinato sabato a Guacari (Valle del Cauca), in una zona segnata dalla presenza di gruppi criminali e narcotrafficanti.
Il 4 luglio era stata la volta di Ana María Cortés, nota dirigente di Antioquia che aveva coordinato la campagna dell’ex candidato presidenziale Gustavo Petro e che aveva ricevuto minacce prima ancora del primo turno delle presidenziali. E altri 19 ne sono stati uccisi dal primo giugno al 3 luglio.
Del resto, se i dati ufficiali parlano di 30 vittime in questi primi sette mesi del 2018 e di 178 dal 2016, cioè dalla firma dell’accordo di pace tra governo e Farc, per la Defensoría del Pueblo sarebbero in realtà molti di più: 311 a partire dal 2016, di cui un centinaio quest’anno. Molto grave, in particolare, la situazione dei popoli indigeni, il 66% dei quali – secondo il rapporto dell’Organización Nacional Indígenas de Colombia – sarebbe a rischio di estinzione o esposto a imminenti processi di stermino.
In tema di aggressioni contro i leader sociali e i difensori dei diritti umani, «ci troviamo ormai a livello di crisi umanitaria», ha dichiarato il coordinatore di Somos Defensores, Carlos Guevara, precisando come sia in atto un tentativo di eliminare i dirigenti sociali, uno dopo l’altro, nella completa mancanza di risposte da parte delle autorità statali.
Che continueranno a presentare tali assassinii come casi isolati, senza alcuna relazione con i nove milioni di ettari di terre usurpate dal capitale e non ancora restituite ai contadini, come invece stabilisce quella Riforma rurale integrale prevista dagli accordi di pace ma ferocemente avversata dai latifondisti.
E se nessun intervento efficace è lecito attendersi dal presidente uscente Juan Manuel Santos, che si è limitato a ordinare al ministro della Difesa Luis Carlos Villegas di convocare una commissione per rafforzare i livelli di sicurezza, è ancor meno probabile che della questione possa occuparsi in maniera seria il nuovo presidente Iván Duque – diretta emanazione di Álvaro Uribe (l’ex presidente noto per i suoi legami con il paramilitarismo e il narcotraffico) –, che si insedierà alla presidenza del paese il prossimo 7 agosto.
A dare la cifra del nuovo governo, deciso ad avanzare sulla via della totale sconfessione del processo di pace con le Farc, è il voto con cui il Senato ha definitivamente svuotato la Giurisdizione speciale per la pace (Jep), uno dei pilastri degli accordi, vietandole di chiamare a rispondere militari e poliziotti finché non sarà approvato un procedimento speciale nei loro confronti (via maestra verso l’impunità), rompendo così i principi di simultaneità e simmetria proprio della giustizia restaurativa.
FONTE: Claudia Fanti, IL MANIFESTO
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