Stati Uniti. Il voto degli operai, tra piena occupazione e salari deboli

Stati Uniti. Il voto degli operai, tra piena occupazione e salari deboli

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La classe lavoratrice decisiva negli stati in bilico. Sindacati con i Dem, ma meno convinti di prima. Scioperi e nuove union rafforzano il movimento, ma al Congresso le riforme pro-labor restano al palo

 

Il 16 luglio Sean O’Brien, il presidente dei Teamsters, lo storico sindacato dei camionisti americani, è salito sul palco della convention del partito repubblicano. Con un milione e 300mila tesserati, i Teamsters sono una delle union più potenti degli Stati uniti. Dal palco di Milwaukee, O’Brien ha dichiarato: «Sono qui per dire che non abbiamo obblighi verso nessun candidato o partito».

Pur non facendo un endorsement ufficiale, il messaggio di apertura a Donald Trump era chiaro. Da Bill Clinton in poi, i Teamsters avevano sempre appoggiato il candidato alle presidenziali del partito democratico. Stavolta hanno ufficialmente annunciato che non sosterranno nessuno dei due candidati. Il sindacato ha anche rilasciato sondaggi condotti tra i suoi iscritti, sia pure su un campione ridotto, che mostrano intenzioni di voto largamente a favore di Trump.

LA MAGGIOR PARTE dei sindacati statunitensi rimane comunque schierata per Kamala Harris. Tra i loro iscritti, però, la situazione non è così chiara. Secondo i dati riportati dall’analista della Cnn Harry Enten, tra i nuclei familiari con almeno un iscritto al sindacato Harris ha un margine di vantaggio su Trump di nove punti, mentre a novembre 2020 Joe Biden ne aveva 19. Lo stesso Biden, prima di ritirarsi dalla corsa, aveva un supporto inferiore tra i tesserati al sindacato rispetto a quattro anni prima.

Anche se il numero di lavoratori sindacalizzati negli Stati uniti è basso – intorno al 10% della forza lavoro – il loro voto sarà importante in stati come il Michigan e la Pennsylvania, che saranno probabilmente decisivi nell’assegnare la vittoria alle elezioni del 5 novembre.

I democratici hanno attivamente cercato il supporto dei sindacati negli ultimi anni. Biden ha investito molto nel costruirsi l’immagine di «Union Joe» – dichiarando di voler essere il presidente più pro-union della storia americana – e Harris ha assunto una postura simile. A settembre 2023, Biden ha visitato un picchetto dei lavoratori dell’auto in sciopero in Michigan, il primo presidente in carica a farlo.

Sotto la sua amministrazione, il National Labor Relations Board (Nlrb) – l’organo federale a cui spetta il compito di salvaguardare i diritti di organizzazione e contrattazione collettiva – è stato particolarmente attivo nel favorire nuovi tentativi di sindacalizzazione. Non è un caso che alcune aziende statunitensi, tra cui SpaceX di Elon Musk, abbiano fatto ricorso alla Corte Suprema mettendo in dubbio la costituzionalità di Nlrb.

AL CONTEMPO, però, tentativi più ambiziosi di riforme pro-labor sono rimasti fermi al Congresso e gli elementi conservatori del partito hanno moderato i tentativi di legare più saldamente gli investimenti in politica industriale ai diritti dei lavoratori. Inoltre, come ha sottolineato il ricercatore sindacale Chris Bohner, non necessariamente le riforme si sono tramutate in benefici immediati per lavoratori e lavoratrici.

Se i dati sul mercato del lavoro sono buoni – l’economia americana è sostanzialmente in piena occupazione – l’alta inflazione degli ultimi anni ha intaccato i salari reali. Non a caso, la campagna di Harris si è focalizzata su politiche di controllo dei prezzi. A contare, poi, sarà la percezione degli elettori: i sondaggi negli stati in bilico mostrano come una maggioranza dei probabili elettori ritenga che la propria situazione economica fosse migliore sotto Trump che sotto Biden.

Nel campo repubblicano, Trump è meno interessato all’intermediazione del sindacato, ma punta direttamente ad assicurarsi il voto della classe operaia americana. Nel 2016, la sua campagna fu efficace nel cercare di unire gli «sconfitti della globalizzazione», puntando il dito contro i danni portati dalla liberalizzazione degli accordi di libero commercio su salari e occupazione degli operai negli Usa.

Nei fatti, al di là delle politiche protezioniste della sua amministrazione – peraltro abbracciate anche dall’amministrazione Biden in crescente competizione con la Cina – sotto Trump l’Nlrb ha indebolito i diritti di lavoratori e lavoratrici, e nulla fa pensare che possa andare diversamente in caso di una sua nuova vittoria, in primis per i lavoratori migranti.

QUALUNQUE sia l’esito delle elezioni, la strada per migliorare salari, diritti e condizioni lavorative della classe operaia rimane in salita. Se da un lato negli ultimi tre anni si è assistito a un incremento dei processi di sindacalizzazione in vecchi e nuovi settori (da Starbucks ad Amazon) e a scioperi importanti che hanno portato a contratti collettivi che hanno mitigato gli effetti dell’inflazione sui salari (da ultimo quello dei lavoratori portuali sulla costa orientale, mentre rimane in corso quello alla Boeing), il tasso di organizzazione della forza lavoro negli Stati uniti rimane molto più basso che negli anni ’70 del secolo scorso, prima dell’avvento di Reagan e del neoliberismo.

Costrette a confrontarsi con una realtà ancora più brutale che i sindacati europei, le union statunitensi hanno investito risorse sull’organizzazione dei lavoratori, ancora però insufficienti a invertire il marcato declino del tasso di sindacalizzazione. Serve uno sforzo maggiore: come recita il titolo di un libro di Jane McAlevy, attivista sindacale e ricercatrice statunitense, non ci sono scorciatoie nell’organizzazione di lavoratrici e lavoratori.

* Fonte/autore: Vincenzo Maccarrone, il manifesto



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