by Andrea Capocci * | 12 Novembre 2024 9:40
Impegni economici da rivedere. Se si apre ai privati va capito dove finisce la lotta al riscaldamento globale e inizia il green washing
Nella sala conferenze adiacente allo stadio olimpico di Baku, il ministro dell’industria degli Emirati Arabi Uniti Sultan Al Jaber ha consegnato il martelletto al collega azero Mukhtar Babayev. È partita così la Cop29, l’annuale Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico. Come un anno fa a Dubai, il summit sarà guidato da un petroliere: l’attuale ministro dell’ambiente Babayev è stato per 25 anni un dirigente della Socar, l’azienda petrolifera statale dell’Azerbaigian. Quasi la metà del Pil della repubblica ex-sovietica dipende dalla produzione di gas e petrolio.
LA GIORNATA DI IERI è scivolata tra cerimoniali, procedure di accredito e registrazione in hotel dei partecipanti. Quest’anno gli organizzatori distribuiranno circa 70 mila pass. Il calendario prevede incontri fino al 22 novembre e il clou è atteso per la seconda metà del summit, in cui solitamente si discute il documento finale con la lista dei compiti per i governi. Pur di chiudere con un accordo, anche di modestissima entità, negli ultimi anni si è arrivati diverse volte ai tempi supplementari.
Sarà l’esperienza dell’anno scorso, sarà Donald Trump, ma sulla Cop che prende il via tra i pozzi di petrolio del Caucaso nessuno si fa illusioni.
In realtà, questi incontri generano raramente svolte epocali a prescindere dalla location. Alzi la mano chi ricorda provvedimenti concreti realizzati grazie a un accordo firmato alla Cop. Dipende dall’architettura stessa della conferenza: ogni anno governi, Ong e aziende invitate (sempre più numerose) affrontano solo un aspetto specifico della questione della mitigazione e dell’adattamento al cambiamento climatico. Per i non addetti ai lavori, anche l’accordo più avanzato può apparire limitato di fronte alla complessità del problema.
IL TEMA SUL TAVOLO stavolta sono i soldi. Gli Stati dovranno aggiornare gli obiettivi fissati a Copenhagen nel 2009, quando quelli più industrializzati si impegnarono a mobilitare 100 miliardi di dollari (circa 94 miliardi di euro) all’anno per finanziare le azioni di abbattimento delle emissioni e di adattamento ai cambiamenti climatici nei Paesi in via di sviluppo. L’obiettivo è stato raggiunto solo nel 2022. Nel frattempo si era già deciso di rilanciare e affinare l’impegno entro il 2025 e Baku è l’ultima chance.
L’OBIETTIVO FISSATO nel 2009 oggi sembra un fioretto di Natale. Le Nazioni Unite hanno quantificato i bisogni reali dei Paesi in via di sviluppo per i prossimi cinque anni tra cinquemila e settemila miliardi di dollari. Cifre che, se prese sul serio, metterebbero in imbarazzo i ministri Giorgetti di ogni latitudine, che alla Cop litigheranno su tutto. C’è chi pensa che mille miliardi all’anno siano troppi e chi troppo pochi. C’è chi vorrebbe allargare il numero dei Paesi contributori oltre Nordamerica, Giappone, Europa occidentale e Australia, coinvolgendo Cina e India. I Paesi in via di sviluppo chiedono anche di essere risarciti per i disastri naturali sempre più frequenti provocati dal cambiamento climatico.
SOPRATTUTTO, SI DISCUTE se si parli di finanziamenti pubblici o se si possano contabilizzare anche gli investimenti privati. «Sul fatto che servano migliaia di miliardi sono tutti d’accordo, ma ognuno si riferisce a una cosa diversa» è il commento di un delegato di un think tank marocchino a Carbon Brief, uno dei media da tenere d’occhio per seguire la Cop.
Se nel conto degli investimenti saranno inseriti anche quelli privati, c’è poi da stabilire dove finisca la lotta al riscaldamento globale e dove inizi il green washing. Una parte consistente dei cento miliardi attuali è servita più a lavare la reputazione delle aziende energivore che a diminuire il rischio climatico. La massiccia presenza a Baku dei lobbisti delle grandi imprese del fossile al fianco dei governi non fa presagire nulla di buono.
PER L’ITALIA HA FATTO I CONTI la campagna «Clean the Cop! – Fuori i grandi inquinatori dalle Cop sul clima» lanciata dalle Ong A Sud, Openpolis e Economiacircolare.com con varie adesioni nel mondo ambientalista e presentata ieri alla Camera. Alla Cop di Dubai si contavano «40 accrediti dal governo su un totale di 47 lobbisti italiani del fossile presenti» ha ricordato Lucie Greyl di A Sud. «Le due organizzazioni col più alto numero di delegati accreditati dall’Italia sono state Saipem (16 accrediti) e Eni (14) i cui affari, legati alla sempre maggiore diffusione delle fonti fossili, vanno in direzione contraria agli obiettivi della Cop e a quelli che dovrebbero essere gli obiettivi del governo italiano».
La campagna ha diffuso un appello per la prossima Cop30 di Belem, in Brasile, per «togliere il badge ai lobbisti» firmato da una trentina di accademici tra cui Luca Mercalli, Mario Tozzi, Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli.
* Fonte/autore: Andrea Capocci, il manifesto[1]
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