Europa al bivio. Dopo Trump, riarmo e spese militari in un mondo senza futuro
Il pianeta brucia e ha sete, l’acqua spazza via tutto, ma la scelta «obbligata» dei leader europei davanti alla vittoria di Trump è, come chiede la Nato, l’aumento della spesa militare
Il pianeta brucia e ha sete, l’acqua spazza via tutto, ma il passaggio obbligato è armarsi, per non fare la fine del vaso di coccio fra i vasi di ferro. Ecco la metafora che guida i leader europei dal giorno dopo la vittoria di Trump. Con accenti social-darwinisti Macron ha evocato un mondo fatto di erbivori e carnivori, nel quale, se noi europei restiamo erbivori e non diventiamo quantomeno onnivori, finiremo per esser preda dei carnivori. Un’Europa che non si arma diventa il mercato di appetiti altrui, tertium non datur.
Il Commissario Ue alla Difesa in pectore, il lituano Andrius Kubilius, ha spiegato ai parlamentari europei come sulla difesa occorra «spendere di più, spendere meglio, spendere insieme e spendere europeo». Mario Draghi è stato esplicito nell’annuncio di grandi cambiamenti, ricordando in Europa siano state ritardate decisioni importanti, in attesa di un consenso che non è mai giunto, mentre sono arrivati problemi davanti ai quali oggi è imperativo agire senza indugio. I ministri della difesa francese e quello tedesco, riuniti a Parigi, hanno annunciato per la settimana prossima consultazioni con Polonia, Regno Unito e, buona ultima, Italia. Significativa l’inclusione di Londra, nel momento in cui ci si aspetta che Trump, noto per detestare la Ue e amare il Regno Unito, cercherà di disallineare quest’ultimo rispetto al continente, offrendo una posizione privilegiata rispetto agli Usa (minori tariffe?).
In realtà, come mostra un rapporto di ricerca di Greenpeace in uscita, l’Unione europea già da tempo si è distinta per l’impulso alla spesa militare, per quanto questa costituisca un ambito che è storicamente prerogativa degli stati membri. Questi ultimi si sono impegnati in sede atlantica ad aumentare le proprie spese per difesa oltre il 2% del Pil. La fila è guidata dai Baltici e, per l’appunto, dalla Polonia (ben oltre il 4%), mentre restano sotto la soglia i paesi del fianco sud Nato, l’Italia in testa.
Per la prima volta dagli anni 50, nel 2024 in ogni paese occidentale che ha affrontato un’elezione i partiti di governo hanno perso larghe quote di elettorato, indicazione che qualcosa non funziona nella direzione di marcia. Dati alla mano, la performance elettorale di Kamala Harris, buttata nella mischia sull’ultimo miglio, è stata meno disastrosa di quanto molti commentatori hanno affermato: una sconfitta di misura nata dalla difficoltà ad incarnare discontinuità e cambiamento, ma distribuita su tutti gli stati-chiave, con ripercussioni davanti all’avanzata di una destra capace di veicolare contenuti suprematisti con il supporto degli uomini più ricchi del pianeta.
Ecco l’eredità di Joe Biden: un piano industriale per la difesa che investe massicciamente nell’ ‘arsenale delle democrazie’, un ruolo primario degli Usa nel mercato dell’energia, e infine – contro una visione puramente economica della globalizzazione – un più acceso scontro con la Cina sulle tecnologie più avanzate. Questa linea è stata trasmessa all’Europa, con calorosa ricezione della neo-nominata Rappresentante Ue per la politica, l’estone Kaja Kallas, che ha abbandonato la consueta definizione della Cina come ‘partner, competitor e rivale sistemico’, limitandosi a quest’ultima definizione: la Cina come rivale sistemico per la sicurezza geopolitica ed economica della Ue.
Il cuore storico dell’Europa unita, l’asse franco-tedesco, viene riaffermato sul piano della volontà politica, ma è solcato da divergenze circa come rispondere alle sfide economiche. Dopo che la Presidenza Macron si è adoperata per mettere in mano alla destra un governo nato dopo la vittoria elettorale delle sinistre, nulla lascia presagire un esito meno nefasto per la coalizione di governo tedesco, che ha aperto la crisi il giorno dopo la vittoria di Trump.
Intanto, ad alimentare un clima che giustifica il salto in avanti sul riarmo, il ministro della Difesa francese ha dato alle stampe un libro dal significativo titolo “Verso la guerra?” mentre i consiglieri di Zelensky scrivono che l’Ucraina è l’unica cosa che si frappone fra la Russia ‘militarizzata e aggressiva’ e l’Europa ‘impreparata e demilitarizzata’. In questo scenario, l’Italia, come sempre, si illude di poter beneficiare di uno spazio di benevolenza e di favore sui vari fronti. Oppone il proprio impegno militare nelle missioni multilaterali alla richiesta di maggior spesa per la difesa e spera di poter evitare l’impatto più duro dei dazi sul proprio export. Quantomeno dalla scorsa estate, le forze di governo hanno iniziato a tracciare dei distinguo rispetto al fronte atlantista più convinto, tanto sull’Ucraina (dove è stato necessario che Meloni dichiarasse che l’Italia starà a fianco dell’Ucraina finché ci sarà guerra), quanto sulle elezioni in Georgia.
Una difesa comune richiede una cultura strategica condivisa, in un’Europa che tende a dividersi su questioni internazionali dirimenti (es. Palestina/Israele, i dazi verso la Cina). Quanto è dunque plausibile la tenuta di un fronte europeo unitario sulla difesa, e quale modello emergerà? La riduzione della politica internazionale a mere relazioni di potere, la riduzione di queste ultime al ‘quanto siamo pronti in caso di guerra’ dice qualcosa dei tempi che ci aspettano e dei compiti che deve assumersi chi si oppone allo slittamento del discorso verso una destra che si mostra tanto impaziente di celebrare l’ordine internazionale liberale che ha sostenuto fino a ieri, quanto entusiasta di ridurre la democrazia ad attributo accessorio.
Mentre in diversi paesi sono in corso iniziative di reintroduzione della leva obbligatoria, il dibattito sulla difesa europea è un già un fatto. La Commissione Von der Leyen 1 coltivava l’ambizione ad un’Europa geopolitica. Scossa dalla fine della globalizzazione liberale e dall’incertezza circa il futuro della comunità di sicurezza atlantica, la Von der Leyen 2 ambisce a coltivare un’Europa geostrategica. Occorre mantenere questo dibattito aperto e trasparente: quali sono i modelli possibili, con quali profili di efficacia attesi? Quali sono i costi dell’inazione, e le implicazioni per il patto sociale, per la transizione ecologica, per i diritti fondamentali? Per tutto questo è necessaria una sinistra capace a sua volta di posizioni unitarie e responsabili, capaci di richiamo ai principi di uguaglianza: un atteggiamento serio nel valutare l’importanza della posta in gioco, senza abdicare alla vocazione dell’Europa come forza di trasformazione della politica internazionale oltre gli angusti spazi del militarismo nazionalista. Un mondo di soli carnivori non ha futuro.
* Fonte/autore: Francesco Strazzari, il manifesto
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