Migranti. Il decreto del governo sui paesi sicuri già rinviato alla Corte europea
Il tribunale di Bologna: con i criteri del governo Meloni anche la Germania nazista sarebbe entrata in quella lista. In evidenza tutte le contraddizioni del bluff messo in campo dall’esecutivo, che attacca: «Uso politico del diritto»
È caduta un’altra tegola sulle pretese del governo italiano in tema di asilo. Dopo un giorno dall’entrata in vigore, il 24 ottobre, il decreto legge sui paesi sicuri è stato rinviato alla Corte di giustizia Ue. I giudici del Lussemburgo dovranno fare chiarezza su due questioni cruciali per il futuro dei centri in Albania, sulle quali sono stati interpellati venerdì dalla sezione specializzata in immigrazione del tribunale di Bologna.
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LA PRIMA è se la presenza di persecuzioni a danno di specifici gruppi sociali – persone lgbtqia+, minoranze etniche o religiose, oppositori, etc. – possa escludere la designazione di un paese come «sicuro». Il giudice afferma che le persecuzioni si rivolgono sempre a minoranze e chiede se, paradossalmente, anche la Germania nazista – che offriva un alto livello di sicurezza alla maggior parte della popolazione ma non certo a ebrei, omosessuali, oppositori, rom, etc. – sarebbe stata considerata tale.
IL TEMA È DIVERSO da quello della recente sentenza dei giudici del Lussemburgo, che hanno ritenuto incompatibile l’inserimento nell’elenco di uno Stato che non è sicuro in tutto il territorio, e anche da quello del rinvio pregiudiziale del tribunale di Firenze, sulla possibilità di fare altrettanto con paesi che non sono sicuri per alcune categorie sociali. Questo perché il governo italiano ha risposto alle decisioni del tribunale di Roma, che non ha convalidato i trattenimenti dei richiedenti asilo oltre Adriatico, con un’escamotage: ha eliminato il riferimento alle schede dei singoli paesi. Ovvero quelle descrizioni, redatte a partire da fonti richieste dalle norme Ue (Agenzia europea sull’asilo, Unhcr, etc.), sulla cui base si sarebbe dovuto fondare il giudizio di sicurezza. Il condizionale è d’obbligo perché proprio quelle schede erano in evidente contrasto con il dettato della legge, visto che descrivevano situazioni per nulla sicure.
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L’ESECUTIVO PRETENDE che tale designazione sia di natura eminentemente politica e ciò escluda il controllo giurisdizionale. Eliminando le schede paese spera di cancellare gli argomenti che derivano dalla sentenza europea, mentre rendendo l’elenco norma primaria reclama che non possa essere disapplicata ma, eventualmente, rinviata alla Consulta (con tempi lunghi). Qui si inserisce il secondo punto del rinvio pregiudiziale: il giudice deve comunque valutare la coerenza tra norme comunitarie e classificazioni nazionali? In caso di contrasti può non applicare una norma di rango primario? Una richiesta di chiarimento peculiare perché non riguarda un dissidio interpretativo di carattere giurisprudenziale, ma «l’inedito conflitto istituzionale in corso» tra governo e magistratura. In realtà si tratta di una domanda retorica, e però rivelatrice del clima, perché la Corte Ue ha già detto che i giudici devono fare quelle valutazioni.
IL CASO BOLOGNESE nasce dal ricorso contro il diniego alla domanda d’asilo presentato da un cittadino del Bangladesh. La sua richiesta era stata giudicata dalla Commissione territoriale, una sorta di primo grado sulla protezione internazionale, «manifestamente infondata» proprio perché l’uomo è originario di un paese sicuro. Dunque, come avviene in questi casi, l’onere di provare quanto dichiarato era tutto in capo alla persona: non avrebbe dimostrato concretamente la sua situazione di pericolo individuale.
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CON QUELLO bolognese sono diventati quattro i tribunali che, con argomentazioni diverse, hanno ritenuto illegittima alla luce del diritto Ue la strategia governativa di limitare, anche attraverso la detenzione, il diritto d’asilo. Prima c’erano stati Catania, Palermo e Roma. «Il governo non si fa condizionare dalle scelte di alcuni», ha attaccato il vicepremier Antonio Tajani (Fi). Mentre il collega di partito Maurizio Gasparri ha parlato di «uso politico della giustizia, che a Bologna registra un nuovo episodio», sottolineando la rapidità del rinvio sul decreto.
LA VERITÀ, PERÒ, è un’altra. La lista dei paesi sicuri, come ricostruisce anche il tribunale emiliano, era stata pensata a livello comunitario per quelli che hanno in corso il processo di adesione e su cui, dunque, le istituzioni Ue hanno poteri di controllo. I criteri, infatti, sono stringenti. Per riassumere: un paese è sicuro se vale lo Stato di diritto. Da quando gli elenchi sono diventati nazionali, il primo in Italia è del 2019 con ministro dell’Interno Matteo Salvini, ognuno ci mette ciò che vuole. Fino al decreto interministeriale di maggio, in vigore fino al dl della scorsa settimana, con cui il governo Meloni ha incluso perfino Egitto o Bangladesh. Non perché fossero veramente sicuri, come mostravano le stesse schede paese, ma solo in ragione del fatto che quelle nazionalità erano in testa agli sbarchi e la classificazione serviva a deportare e trattenere in Albania quei cittadini stranieri. O almeno a provarci.
* Fonte/autore: Giansandro Merli, il manifesto
ph Luxofluxo, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons
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