Libano. Unifil, la missione di peacekeeping che non trova pace
Il paradosso del contingente delle Nazioni unite dislocato sul confine in fiamme: 10mila caschi blu (mille gli italiani) costretti nei bunker mentre infuria ciò che avrebbe dovuto scongiurare
«Qualsiasi incursione in Libano viola la sovranità e l’integrità territoriale libanese e viola la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza Onu». Nella nota stampa diffusa ieri l’Unifil ha infine battuto un colpo, definendo «evoluzione pericolosa» la notifica ricevuta dall’esercito israeliano circa l’intenzione di procedere a «limitate incursioni» oltreconfine.
Ma i circa diecimila militari inquadrati nella missione di peacekeeping dell’Onu nata nel 1978 e riformulata all’indomani della guerra del 2006 sulla cosiddetta Linea Blu, «mantengono le posizioni». Non sono posizioni comode e non è certo l’interposizione per cui la missione era stata pensata. È la postura della sconfitta per una forza di pace costretta a operare in condizioni di scarsa forza e nessuna pace.
Da più parti è cresciuta la preoccupazione per la sicurezza del contingente e il ministro degli Esteri Tajani l’ha declinata pensando ai circa mille soldati della Brigata Sassari, rintanati nel bunker della base “Millevoi” a Shama, nella fascia costiera e a est di Tiro, che per ora non sembra interessata dalle operazioni israeliane. Pressioni bipartisan vorrebbero riportarli subito a casa e anche il ministro della Difesa Crosetto comincia a chiedersi se abbia ancora un senso restare. Secondo Tajani, Israele dovrebbe «limitare il più possibile le vittime civili» (ammazzatene un po’ di meno, se possibile) e «soprattutto garantire l’incolumità dei militari Unifil». Non sono un obiettivo, garantisce, e ci mancherebbe pure che lo fossero. Per quanto, se Netanyahu considera l’Onu un covo di pericolosi antisemiti e tratta da hub terroristico le agenzie umanitarie come l’Unrwa, va a sapere.
Non sono (mai stati) tempi facili per le missioni Onu in giro per il mondo. La Minusma che avrebbe dovuto stabilizzare il Mali è stata destabilizzata a sua volta ed è in fase di smantellamento; la Minurso nel Sahara occidentale è stata creata nel 1991 per sovrintendere a un referendum di autodeterminazione che il Marocco non ha alcuna intenzione di far svolgere; la Monusco, impegnata nel pantano umanitario della Repubblica democratica del Congo, nel Kivu dove è stata dispiegata è diventata parte del problema invece che della soluzione. In Darfur, dove fino al 2020 la Unamid ha sorvegliato una finta pace, oggi torna lo spettro della pulizia etnica.
Ma su quella dislocata al confine tra Israele e Libano grava un drammatico paradosso: la cessazione delle ostilità, che come primo compito della fase iniziata nel 2006 il contingente avrebbe dovuto monitorare, diventa cessazione della ragione.
Il richiamo alla risoluzione 1701 del comunicato Unifil, il principio secondo cui «i civili devono essere protetti, le infrastrutture civili non devono essere prese di mira e il diritto internazionale deve essere rispettato» sono con tutta evidenza un disco rotto. Non c’è linea rossa o blu che non sia stata varcata nell’ultimo anno. Con buona pace dell’Unifil.
* Fonte/autore: il manifesto
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