Nei loro confronti vengono ipotizzati i reati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. La ponderosa relazione delinea le tante opacità della catena dei soccorsi (mancati) in occasione del naufragio di Cutro del 26 febbraio 2023. Trattasi delle prime impressioni che i vari ufficiali e sottufficiali si scambiano, sia su canali istituzionali sia su chat private. Tra le carte emergono le frizioni tra i due corpi su come muoversi in caso di avvistamenti di imbarcazioni. Un inquietante rimpallo di responsabilità in quelle interminabili 5 ore trascorse tra la prima segnalazione e lo schianto che trasformò la piccola cala di Steccato in un cimitero, con quasi 100 migranti morti (di cui 35 bambini) e un numero imprecisato di dispersi.

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Un dato è incontrovertibile. Quel caicco fu avvistato per tempo ed era carico di migranti. Ciò emerge sin dai primi momenti dopo la segnalazione. Il primo dispaccio è frutto di una triangolazione Le Castella-Varsavia-Pratica di mare. Sono le 23.03 del 25 febbraio e gli uffici polacchi di Frontex comunicano alla sala operativa dell’aeroporto militare romano l’avvistamento di un barcone intercettato alle 21.26, a circa 40 miglia dalla costa di Le Castella, dall’aereo Eagle 1, decollato dall’aeroporto di Lamezia qualche ora prima. «Una persona sul ponte superiore – possibili persone aggiuntive sottocoperta, giubbotti salvataggio non visibili, buona galleggiabilità, stato del mare 4. Portelli aperti a prua, significativa risposta termica dai boccaporti».

Da quel momento in poi è un florilegio di errori tecnici, di ordini in ritardo. Un vero plastico della inefficienza. Quella barca, intercettata dall’alto e subito identificata come barcone carico di migranti diretti in Italia, è la Summer of Love, il caicco di legno fradicio partito dalla Turchia 5 giorni prima. E che quel barcone malandato fosse carico di persone appare chiaro anche nelle chat private: «So’ migranti, poi vediamo…», scrive un minuto dopo la prima segnalazione uno degli indagati. Da allora è tutto uno scaricabarile sulle responsabilità dei corpi dello stato.

«Alla Capitaneria di porto l’abbiamo… ne abbiamo richiesto l’intervento già a mezzanotte, hanno dato disponibilità ma non sono mai usciti». È l’ufficiale vibonese Lippolis, a mettere nero su bianco queste parole, contenute nel messaggio che invia al collega tarantino Vardaro. «La Capitaneria non ha ritenuto di uscire però, insomma, abbiamo richiesto tutto eeh! Abbiamo fatto tutto quello che c’era da fare…», chiosa Lippolis nel messaggio che gli inquirenti acquisiscono perché fondamentale nella ricostruzione della catena di responsabilità in capo a chi avrebbe dovuto sorvegliare, proteggere. E che forse non lo ha fatto anche per motivi di indirizzo politico.

È quel che evidenzia l’escussione a sommarie informazioni di Alberto Catone, già comandante del Roan di Vibo: «Voglio precisare che quando sono arrivato in Calabria la Capitaneria di porto era molto restia a operare in mare in operazioni Sar laddove non c’era una situazione di conclamato pericolo. Questo aspetto dipendeva dall’approccio dell’allora ministro dell’Interno Salvini». Che ai tempi della strage era il ministro dei Trasporti, il referente delle capitanerie. Ministro dei Trasporti, Salvini, lo è tuttora. E per ora, stranamente, tace.

* Fonte/autore: Silvio Messinetti, il manifesto[2]