Riprendiamoci Mestre. Dietro l’enfasi repressiva l’abbandono urbano

by Gianfranco Bettin * | 22 Settembre 2024 11:17

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La vita di Jack Serve una sicurezza garantita dalla giustizia sociale, dalla dignità riservata a tutti, che esclude la discriminazione e contrasta l’odio

 

A un certo punto, ieri pomeriggio, al presidio per ricordare Giacomo Gobbato, accoltellato a morte l’altra sera a Mestre, a 26 anni, mentre cercava di difendere una donna aggredita per rapina, Sebastiano Bergamaschi, suo coetaneo, ferito pure lui in quel tentativo coraggioso e generoso, ha gridato che dal dolore non deve scaturire altro odio, altrimenti tutto peggiorerà ancora.

Lo hanno scritto anche i loro compagni e le loro compagne del «Rivolta», uno dei centri sociali autogestiti storici, fra i maggiori d’Italia, luogo di attività culturali, artistiche, musicali, sportive, ricreative, luogo d’accoglienza – vi trovano ospitalità decine di immigrati – e di impegno, di cui Giacomo – “Jack” – musicista e artista tatuatore era un attivista poliedrico, allegro, vitale, come Sebastiano.

Sebastiano che è uno dei più giovani leader del Rivolta e anche del Laboratorio climatico Pandora, una realtà soprattutto giovanile e studentesca, attivissima soprattutto sulle questioni climatiche e ambientale e contro la violenza di genere.

Per questo il loro invito a evitare derive razziste e xenofobe, ricordando che la responsabilità è di un singolo, è coerente con un lavoro di base che entrambi, con molte altre persone, sviluppano da anni. Anche sul terreno specifico della sicurezza, cosa forse inusuale per realtà di questo tipo. Il Rivolta partecipa infatti da tempo al coordinamento «Riprendiamoci la città», che unisce associazioni, comitati, gruppi, strutture, reti civiche e che propone soluzioni specifiche a una situazione che in intere zone sembra da molto fuori controllo.

MESTRE si è infatti guadagnata in questi anni la triste fama di «capitale italiana dei morti per eroina», esito di una politica cittadina, voluta dal sindaco Brugnaro, che ha ridotto al minimo quello che è stato per decenni uno dei servizi di strada a bassa soglia più efficienti d’Italia e conseguenza di una politica regionale che, nel momento di massima diffusione sul territorio delle dipendenze patologiche, ha ridotto al minimo storico i servizi dedicati (il Serd, che dipende dall’Ulss, cioè dalla Regione).

Al tempo stesso, l’enfasi securitaria ha portato e porta a concentrarsi su operazioni che si riducono a meri elenchi di fermi o arresti, a strascico, che non riescono a disarticolare e minimizzare narcotraffico o spaccio e criminalità di vario grado e natura che, anzi, nel disordine demagogico, sfuggono facilmente, continuano ad agire senza troppi disturbi.
«Riprendiamoci la città» propone invece una via alternativa, che integra lo specifico della sicurezza con la qualità sociale e urbana, la ricostruzione aggiornata dei servizi di fatto smantellati e il potenziamento di quelli ridotti al minimo con una impostazione radicalmente diversa delle stesse politiche di controllo del territorio, oggi centralizzate e dominate dall’ossessione securitaria, tanto iniqua (colpendo i soggetti marginali più esposti e risparmiando spesso narcotrafficanti e criminali) quanto fallimentare.

LA SCORSA SETTIMANA, nella classifica delle città più insicure redatta dal Sole 24 Ore annualmente, Venezia è entrata per la prima volta nella “top ten”, al nono posto. Ma sono soprattutto le proteste continue, il disagio conclamato, i drammi, che echeggiano ormai quotidianamente dalle più diverse parti sia della città di terraferma che dalla città d’acqua a mettere sotto accusa questa gestione insipiente e vacuamente demagogica.

Lo scorso anno «Riprendiamoci la città» ha, tra l’altro, portato in piazza oltre cinquemila persone su questi problemi, con un approccio opposto rispetto a quello di Comune e Regione (per non dire di una maggioranza parlamentare che ha appena approvato alla Camera il pacchetto securitario più fascistoide della storia della Repubblica). Si è trattato di una delle più grandi manifestazioni cittadine da molti anni e il Rivolta, ma anche gli altri centri autogestiti cittadini, come il Morion e il Sale Docks di Venezia, ne sono stati fra i principali promotori.

Questo rende ancora più significativo il gesto costato la vita a Giacomo e gravi ferite a Sebastiano, perché connette la sua concretezza nella specifica occasione alla complessità e continuità di impegno attorno a un’idea di città e di società che vive proprio in questa sintesi di piena e personale disponibilità ad agire, anche con il proprio corpo direttamente, e di visione politica articolata e agita collettivamente.

UN’IDEA che si confronta, peraltro, con molte realtà che hanno una formazione e una costituzione differente ma che, ragionando da tempo insieme, nel confronto e nell’analisi dei fallimenti e delle tragedie provocate dalla destra al governo locale e nazionale, convengono sulla necessità urgente di un’altra politica.

Forse è da questo tipo di azione condivisa, fra diversi ma solidali nella volontà di agire per il bene comune, reputando tale anche una sicurezza garantita principalmente dalla giustizia sociale, dalla dignità riservata a tutti, che esclude la discriminazione e la stigmatizzazione dei più deboli e contrasta l’odio, forse è da un approccio come questo, realizzato nel vivo di un territorio complicato, che, anche nel dolore profondo di queste ore, anche dalla rabbia naturale e giusta, può emergere altro, altra forza ed energia e chiarezza per andare avanti sulla strada che è stata e sarà sempre anche di Giacomo.

* Fonte/autore: Gianfranco Bettin, il manifesto[1]

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