by Alberto Negri * | 27 Settembre 2024 9:16
L’obiettivo primario di Netanyahu, che oggi parla alle Nazioni Unite, è restare al potere a qualunque costo proseguendo il conflitto a Gaza e quello contro Hezbollah e il Libano
Di cessate il fuoco tra Israele e Hezbollah da parte di Tel Aviv non se ne parla neppure. «Andremo avanti fino il vittoria», dice Netanyahu che non teme di certo l’ira di Biden ma casomai del suo ministro della sicurezza Itamar Ben Gvir. Che è il capo del partito di estrema destra Otzma Yehudit, che ieri ha minacciato di lasciare il governo – e quindi di farlo cadere – se il premier israeliano accettasse la proposta di cessate il fuoco americana e francese.
Primo dilemma risolto: la pace può attendere. L’obiettivo primario di Netanyahu, che oggi parla alle Nazioni Unite, è restare al potere a qualunque costo proseguendo il conflitto a Gaza e quello contro Hezbollah e il Libano. Lo farà con questa coalizione di sionisti radicali fino a quando potrà: nei suoi piani c’è quello di aspettare l’insediamento del prossimo presidente americano, nel gennaio 2025. Il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023 gli ha consentito di proseguire la sua carriera politica e di sfuggire alla giustizia, oltre ogni previsione.
In tutto questo non solo sta trascinando Israele e il Medio Oriente verso un conflitto più ampio ma ha gettato il discredito sull’amministrazione americana rimandando indietro più volte, con ogni scusa possibile, il piano Biden per una tregua. Il segretario di stato Blinken è stato trattato da lui come un postino, tanto è vero che qualche giorno fa ha lasciato la regione alla svelta. In questo frangente si è avuta un’altra conferma di chi decide davvero tra Tel Aviv e Washington.
Bisogna essere chiari: gli Usa, come avviene da anni, sono i suoi complici più importanti. Il 23 agosto scorso hanno deciso di dare a Tel Aviv altri 20 miliardi di dollari di aiuti militari tra cui 50 caccia bombardieri F-15. E si deve essere ancora più espliciti: tra il suo preferito Trump – colui che ha riconosciuto la sovranità israeliana sul Golan e spostato l’ambasciata Usa a Gerusalemme – e la democratica Kamala Harris, attuale vicepresidente, per Netanyahu non c’è troppa differenza.
L’amministrazione democratica ha soddisfatto tutte le richieste di aiuti militari, ha accettato l’espansione delle colonie in Cisgiordania (con flebili proteste) e ha lasciato che decine di migliaia di coloni venissero armati dall’ esercito israeliano come ammesso dallo stesso capo dello Shin Bet. Quanto al Libano la mediazione Usa tra Israele e Hezbollah si è materializzata nel nominare come “inviato di pace” Amos Hochstein, cittadino Usa ma ex ufficiale dell’esercito israeliano, che questa stessa amministrazione aveva in precedenza incaricato nel 2021 di far saltare (diplomaticamente) il gasdotto North Stream tra Russia e Germania (sabotato come poi è stato nei fatti). Ogni commento è superfluo: con Hochstein è come avere messo la volpe nel pollaio.
Secondo dilemma di Netanyahu: far ritornare 60mila israeliani nei villaggi dell’Alta Galilea e l’invasione di terra del Libano. Israele ha invaso il Libano nel 1978 e nel 1982, poi ha lasciato nel 2000 la “fascia di sicurezza” in Libano e il confine è tracciato dalla Linea Blu dove ci sono i soldati Onu della missione Unifil (tra questi 1000 italiani). Con la guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah Israele ha riprovato a penetrare in Libano ma nonostante 28 giorni di bombardamenti devastanti sul Paese dei cedri le truppe ebraiche sono state fermate sulla linea di Bint Jabayl.
Per far rientrare i profughi israeliani al Nord i comandi israeliani puntano sull’arretramento di Hezbollah e della sua artiglieria oltre il fiume Litani. L’invasione di terra avrebbe questo obiettivo. Ma non è detto che funzioni. In primo luogo Hezbollah è un’organizzazione di guerriglia addestrata e sperimentata (Siria, Iraq, Yemen) e le truppe israeliane potrebbero restare impantanate. In secondo luogo i bombardamenti israeliani di questi giorni hanno prodotto centinaia di migliaia di profughi fuggiti verso Beirut, la valle della Bekaa e anche verso la Siria. Lo scenario sta diventando sempre più drammatico e complicato.
Il Libano conta poco più di cinque milioni di abitanti, i profughi, in gran parte dalla Siria, sono 1,5 milioni, in pratica una persona su quattro è un rifugiato (i palestinesi sono 400mila): un’invasione massiccia significa combattere in un enorme campo profughi. Si può delineare un catastrofe militare e politica. Per questo anche gli esperti israeliani parlano di operazioni di terra “mirate” ma ripetute.
E veniamo al terzo dilemma di Netanyahu che è anche il nostro. Il premier oggi davanti all’Onu, come ha fatto in tutti questi vent’anni al potere, ribadirà che il vero nemico è l’Iran. Il premier sta provando in ogni modo a far entrare Teheran in un conflitto diretto con Israele in modo da provocare l’intervento degli Stati uniti a fianco dello stato ebraico. E un intervento americano significa anche la mobilitazione degli alleati degli Usa fuori e dentro la regione.
È la “grande guerra” che sognano i più estremisti dei sionisti per regolare i conti in Medio Oriente. Ma come dimostra anche il recente passato non solo nessun conflitto ha risolto i problemi della regione ma al contrario ha aperto il vaso di Pandora del caos e della distruzione (Afghanistan, Iraq, Siria, Libia). La “grande guerra” si deciderà, forse, con l’uscita di scena di Biden, un addio che in Medio Oriente non lascia rimpianti ma neppure molte speranze.
* Fonte/autore: Alberto Negri , il manifesto[1]
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