La ferita sanguinante del Libano

by Alberto Negri * | 21 Settembre 2024 11:41

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Ieri un raid israeliano su Beirut ha ucciso Ibrahim Aqil, capo della forza Al-Radwan, unità d’élite degli Hezbollah, in un quartiere della capitale che si è dimostrato di nuovo vulnerabile

 

Il raid israeliano di ieri su Beirut nel quale è stato ucciso Ibrahim Aqil, capo della forza Al-Radwan, unità d’élite degli Hezbollah, ha avuto come scenario Al Jammous, al centro del quartiere di Haret Hreik roccaforte di Hezbollah, in quella Dahiye che costituisce la grande periferia “verde”, a maggioranza musulmana sciita, del Sud della capitale libanese.

La «cintura verde» di Beirut, uno dei bersagli dell’aviazione e dei razzi israeliani fin dagli Ottanta e Novanta.

Nella guerra del 2006 Haret Hreik venne praticamente rasa al suolo. Fu qui che il mattino del 14 agosto 2006, un’ora dopo la fine dei bombardamenti di Israele, che aveva colpito sino a un secondo prima del cessate il fuoco dell’Onu, che fece la sua famosa passeggiata il ministro degli Esteri Massimo D’Alema, il viatico alla soluzione diplomatica degli accordi di Roma. Nei quartieri popolari di Beirut c’erano state centinaia di vittime e la passeggiata di D’Alema fu molto apprezzata.

Fu in quei giorni, sotto le bombe, che qui incontrai la palestinese Leila Khaled, protagonista dei dirottamenti aerei del 1969 e ’70, la cui immagine che la ritraeva mentre imbracciava un AK-47 con indosso una kefiah era diventata un’icona internazionale, quasi al pari di Che Guevara. La tv di Hezbollah Al Manar, che ha sede proprio a Haret Hreik, la stava intervistando a cielo aperto, in uno studio improvvisato tra le macerie, mentre sopra passavano gli aerei israeliani.

Haret Hreik ha vissuto in pieno la guerra civile libanese cominciata nel 1975 e tutti i conflitti con gli israeliani. Qui in estate è stato ucciso Fuad Shukr, noto anche come Haj Mohsen, il capo di stato maggiore di Hezbollah, fulminato in un attacco compiuto da un drone proprio contro un edificio di Haret Hreik. Secondo il Dipartimento di stato, avrebbe avuto un «ruolo centrale» nell’attacco del 1983 a una base Usa in Libano in cui morirono 241 soldati americani. A inizio anno, sempre un drone israeliano aveva ucciso in questo quartiere Saleh Aruri, uno degli esponenti più importanti di Hamas che si credeva al sicuro a sud di Beirut. Invece questa parte della capitale, dove pure Hezbollah attua rigide misure di controllo, si è dimostrata di nuovo vulnerabile.
Haret Hreik e la Dahiye sono il simbolo concreto dei grandi cambiamenti avvenuti in Libano nei decenni. Se avessimo passeggiato da queste parti dopo la seconda guerra mondiale avremmo visto case non più alte di un piano circondate dai campi e dagli agrumeti, in buona parte abitate da cristiani. Oggi ci sono palazzoni ovunque e i ritratti di Nasrallah, attuale capo di Hezbollah, e dell’imam Musa Sadr.

È a Musa Sadr, di origine iraniana, un uomo alto, affascinante e con occhi penetranti, cui si deve il risveglio degli sciiti libanesi, confinati fino agli Cinquanta nel Sud e in gran parte fuori dai giochi politici ed economici del Paese dei cedri. Musa Sadr, che nell’agosto 1978 fu inghiottito e sparì nella Libia di Gheddafi, possedeva grandi capacità organizzative e abilità nel raccogliere fondi che servirono cause sociali e umanitarie e alla fondazione delle milizie di Amal nei cui campi di addestramento passarono attivisti palestinesi, iracheni e anche un corpo dei Pasdaran, le guardie della rivoluzione khomeinista che poi furono decisive nella creazione di Hezbollah.

L’ascesa degli sciiti libanesi ha avuto per il Medio Oriente dei clamorosi risvolti che oggi a Beirut si possono misurare semplicemente con un colpo d’occhio. Il quadro urbano della città, dove l’orizzonte del mare è stato oscurato dai grattacieli, è attraversato da incrinature e fratture continue che iniziano in maniera evidente quando si moltiplicano i tetti di lamiera ondulata, i muri grezzi di calcestruzzo, le ragnatele di fili elettrici che avvolgono le strade e i quartieri: questa è la «cintura verde» della povertà, quella degli sciiti, dove si sono ammassati nel corso dei decenni i contadini del Sud del Libano, profughi palestinesi e immigrati.

La Dahiye, di solito ignorata dai viaggiatori occidentali, è un enorme spazio urbano diviso in quatto municipalità (Haret Hreik, Ghobeiri, Hadath e Burk el Baraineh) con 500mila residenti, il doppio di quelli della municipalità di Beirut, provenienti in gran parte ai villaggi del Sud. Molti di loro sono profughi dal 1982, durante l’invasione israeliana. È questa la ferita sempre sanguinante del Libano contemporaneo.

* Fonte/autore: Alberto Negri, il manifesto[1]

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