Gaza, tra i bambini feriti tutto il dolore del mondo
Reportage. Con l’intensificarsi dei raid arrivano in pezzi al pronto soccorso dell’ospedale Al-Aqsa, su carretti trainati da asini. Non chiedono giocattoli o cioccolata, chiedono acqua. Senza antibiotici le ustioni provocate dalle bombe sono una sentenza di morte. E mancano gli anti-dolorifici per alleviare le loro pene
Deir al-Balah, Striscia di Gaza. Nell’ultima settimana i bombardamenti si sono intensificati nell’area di Dayr al-Balah. I bambini vengono portati in pezzi al pronto soccorso dell’ospedale di al-Aqsa, su carretti trainati da asini. Sono arrivati in sala operatoria Amira, la più grande, solo 9 anni, e Fares, 4 anni. Fares chiedeva della sorella. Lei era a fianco a lui, ma per le ustioni sul viso non l’aveva nemmeno riconosciuta e lei poteva sentire la sua voce ma non poteva parlare perché lo stesso fuoco che le aveva bruciato la pelle, le aveva bruciato anche i polmoni.
LE USTIONI SONO UNA SENTENZA di morte a Gaza perché non ci sono né acqua né antibiotici per curarle. Gia cinque minuti dopo l’arrivo della bimba, tutti sapevano che sarebbe morta. Anche se respirava ancora, in quel momento, sarebbe morta. E per tutti i giorni che è rimasta in vita, Amira ha avuto dolore, perché non ci sono neanche gli antidolorifici.
Devi tenerti dentro le lacrime, deglutire, e andare avanti.
I nomi dei bambini li scrivevano sulle gambe e sulle braccia, adesso sono scritti sul torace o sulla pancia. Lettere ben scavate sulla pelle per tenere ferme le parole. «Se mia figlia perde un braccino, ho paura che non me la riportano», ci dice Eman. C’è tutta la disperazione del mondo.
A Gaza c’è odore di guerra. La polvere da sparo che si mischia alla sabbia. È questo che senti e che ti brucia i polmoni. Il profumo dello za’hatar non c’è più. Siamo al punto in cui un bambino non chiede né giocattoli né cioccolato, ma acqua da bere. E la carenza d’acqua ti assale. Ciascun abitante a Gaza per bere, cucinare e lavarsi, ha accesso a una quantità di acqua equivalente allo scarico di un bagno. Al giorno.
LE STRADE NON CI SONO, è rimasta la memoria del tragitto da una casa massacrata all’altra. Non ci sono alberi. L’aria ti porta il rumore delle bombe. Ci sono ferite aperte su cicatrici del passato. C’è distruzione su ciò che era stato ricostruito con pena e dolore. Ci sono vite che non hanno raggiunto la morte, ma sono morte lo stesso.
Ha solo 7 mesi Basmaa. È arrivata in pronto soccorso priva di sensi. La sua casa è stata bombardata. La sua gambina è rimasta sotto le macerie per ore prima che venisse liberata. È stata in sala operatoria un’intera mattinata a ricostruire qualcosa che sembrava perso.
Quando si è svegliata in terapia intensiva, attorno a lei ha trovato solo sconosciuti, eppure non piangeva. Seguiva tutti con lo sguardo. Ogni movimento la spaventava, ma non piangeva. C’erano di fronte al mondo intero gli occhi di una bambina ferita.
IL RISULTATO DELLA PAURA è la frattura del tessuto sociale. «Non siamo più a casa», è questo che ci dicono le famiglie di Gaza. «Siamo abituati a stare seduti al buio nelle tende». Non ci sono più candele e usare la torcia del telefono significa far scaricare la batteria. E non c’è elettricità. L’allontanamento dalla normalità è una violenza calcolata. È la riapertura di una ferita non guarita, un dolore su una scala incomprensibile per la mente umana, che impedisce perfino di piangere.
Gli spostamenti continui fanno perdere la nozione di terra. «Vieni cacciato da casa tua con un messaggio che ti ordina di andartene. Vai via, ma sai che sei in Palestina. E anche se siamo in tenda, noi possiamo ancora considerarla casa. Ma siamo stanchi di rimetterci in viaggio con i materassi sulle spalle. Queste sono le nostre ferite».
LA SALAH AL-DIN ROAD ti permette di vedere dove si trova Gaza dopo 11 mesi di bombardamenti. I volti sono pallidi e stanchi. Ci sono bambini senza braccia o senza gambe, intere famiglie alla ricerca di acqua. Quello che rimane delle strade intorno sembra restringersi, perché a destra e a sinistra le tende invadono questo mondo di povertà. Vivere sotto una tenda significa sentire che non si ha più né un tetto né muri che possano proteggere, significa sentire le bombe che prendono a pugni la terra ogni giorno e ogni notte. Per molti il campo di tende rappresenta il luogo da cui provengono. I campi sono il simbolo del ritorno. È un modo per dire: appartengo a questa terra anche se ne sono stato espulso.
Non ci si arrabbia più. Quando guardi in faccia il dolore, quando ti entra nelle vene, quando lo senti nelle ossa, quando non c’è cura, non ci si arrabbia più.
* chirurgo pediatrico a Gaza per Medici Senza Frontiere
Fonte/autore: Federica Iezzi, il manifesto
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