by Federica Iezzi * | 31 Agosto 2024 9:22
Reportage dall’ospedale al-Aqsa . Tra cataste di cadaveri senza nome e un numero spaventoso di feriti senza speranza di ricevere cure adeguate per mancanza di mezzi. E i più piccoli in cerca di un perché che non c’è. Amputati in sale operatorie buie, senza elettricità, con antidolorifici e antibiotici centellinati. E non esiste un dopo
Deir el-Balah. «Voglio solo dormire per un’ora senza essere terrorizzato». Ce lo dicono in molti quando arrivano negli ospedali o cliniche dove opera Medici Senza Frontiere. Quei molti che vivono tra le macerie delle loro case. Trascinati da nord a sud, poi ancora da sud a nord, da un campo profughi all’altro. Nessun luogo è sicuro dopo gli implacabili attacchi mirati nella zona umanitaria.
Le temperature toccano i 40 gradi, non c’è acqua da bere. Le scuole dell’Unrwa diventano nuovi villaggi. Giochi per i bambini, piccole realtà di cucine improvvisate, adulti in fila con qualche shekel in mano per caricare i telefoni in un piccolo punto di fornitura di energia elettrica. La paura è la stessa con il rumore dei bombardamenti e con il silenzio, quando il perenne ronzio dei droni si affievolisce. Il suono delle urla, cenere e sangue sono l’unica cosa che si può sentire, vedere e annusare.
DOPO OGNI BOMBARDAMENTO si corre tra feriti, morti e parti del corpo ormai di nessuno, sperando ogni volta di non trovare tua figlia, tua madre, tuo padre. Sperando ogni volta che nessuno della tua famiglia sia stato fatto a pezzi o sia stato bruciato vivo. I resti dei corpi finiscono in sacchetti di plastica. Una visione quotidiana dell’orrore.
Dopo ogni bombardamento i membri di ogni famiglia si dividono, una parte va in pronto soccorso e una parte all’obitorio per cercare chi non c’è. Un calvario disumano.
Dopo ogni bombardamento, in ospedale molti corpi rimangono accatastati davanti all’obitorio, in attesa che le famiglie vengano a identificarli. Molti sono smembrati. Irriconoscibili. La polvere non va via e l’odore acre rimane.
Gli appunti quotidiani sono fatti di corpi straziati, di genitori che piangono, di grida di rabbia al capezzale dei bambini morenti e del silenzio del coma.
Medici e infermieri curano vittime di traumi e ustionati sul pavimento degli ingressi o nei corridoi, sotto luci al neon tremolanti. Non ci sono attrezzature mediche sufficienti per il numero spaventoso di feriti che si riversa in ospedale, né sterilizzatori e garze per fasciare le ferite. C’è solo il paracetamolo per il dolore. Le ferite da bombardamento si puliscono con acqua perché non c’è più nulla. Si affrontano interruzioni di corrente fino a 12 ore al giorno. Si riceve acqua solo per due ore al giorno.
«C’è stata un’esplosione. Mi sono guardato e ho scoperto che avevo delle schegge nel petto, nella schiena e nei piedi. E stavo sanguinando». È Abdel, ha 8 anni. Non è un numero. È un bambino.
CHI LAVORA CON I BAMBINI in ospedale lo sa bene. I bimbi che entrano per la prima volta in ospedale non sono spaventati, perché non conoscono il dolore che invece, una volta usciti, si riportano a casa. La chiamano «l’esperienza del dolore». I bambini a Gaza hanno tutti paura. Il dolore lo conoscono dalla nascita. Ed è reiterato. Non hanno voce per piangere. I loro occhi piangono. Quelli che cercano in giro la mamma e una ragione sul perché non c’è.
Vengono amputati in ospedali sovraffollati, dove decine di migliaia di palestinesi sfollati cercano rifugio, e in sale operatorie buie senza elettricità, con antidolorifici, antibiotici e forniture sterili centellinati. E non esiste nemmeno un dopo. Non ci sono protesi. «Pieno recupero» a Gaza significa una vita di disabilità grave e permanente.
«Ogni giorno non riesco a dormire a causa del rumore dei bombardamenti – ci ripete ogni bambino – e voglio dormire perché mi fa male la gamba». Ma la gamba non c’è più.
IL SILENZIO accompagna tanti passaggi. Accompagna gli sguardi. Le urla soffocate. La paura di morire. Quella di vivere. Accompagna i giochi dei bambini che non ci sono più. Anche se il rumore dei bombardamenti riporta tutti al “qui e ora”.
Questa macchina da guerra sta distruggendo tutto. Uomini, edifici, alberi, pietre, terreni agricoli. E qualcosa di ancora più importante: i ricordi e il passato. Perché demolire una casa non significa semplicemente abbatterne i muri, ma significa cancellare il ricordo di tutte le fasi di una intera vita: infanzia, studi, diplomi, matrimoni. Non rimane più niente. Niente più foto di quando si era piccoli, foto di classe a scuola, quelle dei genitori quando erano giovani. Niente più chiavi. Tutto scomparso.
I legami delle famiglie in guerra diventano come una ragnatela, ci sono ma sono fragili. Si perdono ricordi, si perde il nome delle strade.
GAZA STA SPROFONDANDO nella miseria e nella distruzione totale. Case smembrate. Guardare attraverso quei muri crollati, che non proteggono più nulla, è come fare il sinistro spettatore di vite altrui. Tavoli, sedie, letti, vestiti, giochi. Lì dentro prima c’erano vite che si svegliavano al mattino per lavorare, che andavano a scuola, che giocavano a calcio, che pescavano. E ora chissà dove sono.
* chirurgo pediatrico di Medici Senza Frontiere a Gaza
Fonte/autore: Federica Iezzi, il manifesto[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2024/08/la-guerra-contro-i-bambini-di-gaza/
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