Gaza. La tregua è divenuta la priorità per fermare l’escalation

Gaza. La tregua è divenuta la priorità per fermare l’escalation

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Mediatori e governi premono per un accordo tra Israele e Hamas che fermi la corsa al conflitto regionale. Gli Usa convinti che un cessate il fuoco frenerà la risposta di Iran ed Hezbollah. Intanto la Striscia è un inferno: Israele manda gli sfollati da Khan Younis nelle tende di al-Mawasi, poi le bombarda

 

La rinnovata offensiva terrestre contro Khan Younis, la seconda città più grande di Gaza ridotta in macerie dalle avanzate israeliane precedenti, si intreccia alla pressione sempre più affannosa per un accordo di tregua nella Striscia. Quasi un film distopico con appelli inviati dalle cancellerie di mezzo mondo, mentre la popolazione di Gaza – ormai interamente sfollata – continua a girare in circolo. In cerca di un rifugio che si tramuta ogni volta nell’ennesima trappola: chi scappava da Khan Younis due giorni fa, ieri è stato bombardato ad al-Mawasi.

L’IMPRESSIONE è che la crescente impazienza internazionale sia il segno di una lapalissiana consapevolezza: solo la fine dell’offensiva israeliana su Gaza può davvero frenare l’escalation mediorientale, fornendo ai due principali attori dell’attesa risposta militare a Tel Aviv – Iran e l’Hezbollah libanese – una via d’uscita. Ovvero l’opzione di una risposta più debole (che ne salvaguardi le rispettive basi di consenso) a cui il governo israeliano non potrebbe rispondere con piena forza, come confermavano fonti statunitensi ad Axios.

La possibilità di cui si congettura dietro le quinte è un attacco dell’Iran o dei suoi alleati nella regione che non prenda di mira obiettivi civili, ma basi militari per evitare una guerra aperta che, ribadiva ieri su Haaretz l’analista Amos Harel, «le attuali valutazioni dicono non essere lo scopo degli iraniani e di Hezbollah».

In particolare Teheran, aggiungeva Arel, per cui «è importante mantenere un canale di dialogo con Washington per proteggere il proprio progetto nucleare». Non rassicurano le parole attribuite ieri dall’agenzia Tasnim al leader supremo Ali Khamenei: avrebbe chiesto ai pasdaran di «punire con durezza Israele».

Nel «gioco» alla guerra, da qualsiasi parte la si guardi, i palestinesi sono la pedina, protetti da nessuno e sfruttati da tutti, nell’idea che la tregua sia strumento per altro, prima che indispensabile strumento a fermare la carneficina.

FONTI VICINE ai negoziatori riportano da giorni della frustrazione dei player del dialogo, Egitto, Qatar e Stati uniti. La si coglieva tra le righe del comunicato congiunto consegnato alle agenzie stampa giovedì sera: il tempo è scaduto, non ci sono scuse per un altro rinvio, Israele e Hamas devono presentarsi al tavolo negoziale il 15 agosto per finalizzare l’accordo. Come ci fossero solo da limarne i dettagli. Le distanze ci sono e sono enormi rispetto alla proposta che il presidente Usa Joe Biden, con una palese forzatura, aveva reso pubblica a fine maggio, attribuendola alla farina del sacco israeliano.

Nessun seguito, anche per i continui giochi al rialzo del premier israeliano Netanyahu, in aperta frattura con i suoi stessi negoziatori e il ministero della difesa che da settimane fanno filtrare alla stampa la reprimenda al capo: è lui, dicono, che non vuole l’accordo.

Netanyahu, che in risposta all’appello dei mediatori ha annunciato l’invio di una delegazione il 15 agosto tra gli schiamazzi dell’ultradestra che minaccia di far saltare il governo, pare avere il mondo contro: ieri piovevano appelli per la tregua e lo scambio di ostaggi dagli Emirati alla Francia, dall’Oman all’Ue, dal Libano sulla graticola al Regno unito e al Canada.

Ma ha un pezzo significativo di società israeliana al fianco. L’ultimo sondaggio pubblicato dal quotidiano Maariv dava il premier «Mr. Sicurezza» in crescita nei consensi (il 42% lo vuole ancora come primo ministro, il 40% preferisce il rivale Benny Gantz) e il suo partito, il Likud, in testa con 22 seggi contro i 20 dell’avversario, fino a giugno in cima nelle preferenze di voto.

Di certo la terza offensiva su Khan Younis dal 7 ottobre non aiuta, come non aiuta l’aver ammazzato su suolo iraniano il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, seppur il movimento islamico che non muore nemmeno se lo decapitano non ha abbandonato il tavolo e ieri faceva sapere di aver messo in cima alla lista della richieste la liberazione del leader di Fatah, Marwan Barghouti, e del segretario del Fronte popolare, Ahmad Saadat.

LA FEROCIA dell’offensiva la danno le bombe cadute ieri su al-Mawasi, fazzoletto di terra beduina lungo la costa sud, da mesi tramutata in una tendopoli senza pace. Decine di palestinesi sono stati uccisi giovedì e di nuovo venerdì a Khan Younis e a Deir al-Balah, altri cinque ad al-Mawasi «zona sicura», tra loro due bambini. I nuovi avvertimenti israeliani hanno generato il terrore accompagnato alla rabbia per quella che viene definita «una tortura psicologica».

«Colpiscono ovunque, hanno già colpito al-Mawasi e in tanti sono stati uccisi», diceva uno sfollato, Ahmed al-Farra alla Reuters, in fuga insieme ad altre 70mila persone. L’intrinseca insicurezza delle «zone sicure» è ormai certificata, quasi divenuta la normalità. Lo dimostra il picco di raid aerei contro le scuole rifugio agli sfollati. Ieri l’ong Euro-Med ha fatto qualche calcolo dopo gli ultimi due bombardamenti di scuole a Gaza City: in otto giorni, 79 palestinesi sono stati uccisi e 143 feriti dentro un istituto scolastico. Sale anche il numero di giornalisti uccisi: 167 in dieci mesi, l’ultimo è morto ieri, Tamim Muammar, colpito in una casa a Khan Younis insieme ad altre sei persone.

Intanto al confine libanese-israeliano continua lo scambio di fuoco. Due persone sono state uccise ieri nel villaggio libanese di Naqoura da un drone israeliano, mentre lo Shin Bet dice di aver ucciso in un raid un alto ufficiale di Hamas, Samer al-Hajj, indicandolo come capo del gruppo nel campo di Ain al-Hilweh, a Sidone. Lontano dalla frontiera, «linea rossa» ben poco rispettata da Israele negli ultimi mesi ed ennesima provocazione al movimento islamico palestinese, in vista del tavolo negoziale.

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



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