by Chiara Cruciati * | 15 Agosto 2024 9:08
Medio Oriente. Caccia in consegna dal 2029, ma arrivano nel 2026 munizioni e mortai utilizzati contro i civili nei Territori palestinesi occupati. Subito polemica: è una luce verde a Tel Aviv a usarli come vuole
Approvare venti miliardi di dollari in armi a Israele nel pieno di un genocidio e di un’escalation militare regionale è gettare un fiammifero acceso su una tanica di benzina. Gli Stati uniti giocano col fuoco. Mentre insiste per il cessate il fuoco a Gaza, preme sul primo ministro israeliano Netanyahu e fa promesse di dialogo all’Iran, Washington ha approvato la vendita di un pacchetto di armi abnorme.
Armi che sono usate nei Territori palestinesi occupati: se nel pacchetto autorizzato dal Dipartimento di Stato ci sono F15 della Boeing in consegna dal 2029 (oltre 50 per 18,82 miliardi), le munizioni per i carri armati (33mila per 774 milioni), i mortai (50mila per 61,1 milioni) e i missili di medio raggio (30 per 102,5 milioni) arriveranno molto prima, nel 2026. «È vitale per gli interessi nazionali assistere Israele nello sviluppo e il mantenimento di una forte capacità di auto-difesa», il commento del dipartimento guidato da Antony Blinken.
Un concetto, quello dell’autodifesa, che organizzazioni e istituzioni internazionali hanno prima criticato e poi smontato, fino alla sentenza della Corte internazionale di Giustizia che in una serie di sentenze, a partire dallo scorso gennaio, ha messo sotto indagine Israele per genocidio plausibile. La decisione ha effetti potenzialmente esplosivi anche per chi permette che il crimine venga compiuto. Per esempio, vendendogli armi invece di assumere misure di prevenzione (come prevede la Convenzione sul genocidio del 1948).
Eppure, le tante richieste di embargo mosse in questi mesi all’amministrazione Biden nelle piazze, nei campus e dentro il Congresso sono cadute nel vuoto, anche a fronte delle inchieste che hanno dimostrato l’utilizzo di armi statunitensi per commettere stragi di civili palestinesi, in violazione del diritto internazionale e della stessa legge statunitense. In tale contesto l’invio di nuove armi è di fatto una luce verde a Israele a continuare a usarle come vuole.
Le condanne a parole e le richieste di «moderazione» sono esercizi vuoti. Soprattutto alla luce di dichiarazioni come quella dell’ambasciatrice Usa alle Nazioni unite, Linda Thomas-Greenfield, che martedì in Consiglio di Sicurezza ha detto che Washington intende «abbassare la temperatura» nella regione.
Così, a tre settimane dal discorso di Netanyahu al Congresso in cui lo strigliava perché di armi ne voleva di più e distorceva numeri e fatti dell’offensiva (prendendosi calorosi applausi) Tel Aviv arricchisce l’arsenale. Washington invia già assistenza militare a Israele per 3,8 miliardi annui e, dal 7 ottobre, ha spedito tra gli altri 14mila bombe da 900 chili, 6.500 bombe da 230 chili, 3mila missili Hellfire aria-superficie, mille bombe bunker-buster e 2.600 bombe di piccolo diametro. Chissà come la prenderà quel pezzo importante di elettorato democratico che ha espresso l’intenzione di astenersi dal voto per le posizioni di Biden sulla Palestina. Kamala Harris sta cercando di convincerli a ripensarci perché, senza di loro, vince Trump.
* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto[1]
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