B’Tselem: «Detenzioni di massa di palestinesi parte del regime di apartheid»

B’Tselem: «Detenzioni di massa di palestinesi parte del regime di apartheid»

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Intervista al portavoce dell’ong israeliana, dopo la pubblicazione del rapporto che denuncia l’esistenza di una rete carceraria di abusi per i prigionieri palestinesi: «Se in Israele ci fosse un sistema giudiziario vero, la Corte suprema dovrebbe recarsi subito nei campi di tortura, verificare cosa accade e chiuderli immediatamente»

 

Sono trascorse due settimane dalla pubblicazione del rapporto «Welcome to Hell» della ong israeliana B’Tselem, 118 pagine in cui l’organizzazione per i diritti umani denuncia la realizzazione di una rete di campi di tortura per migliaia di prigionieri palestinesi di cui il famigerato centro di Sde Teiman è solo la punta dell’iceberg.

Abusi e violenze quotidiane, umiliazioni, fame e sparizioni forzate, oltre 60 decessi in custodia, tutto parte di un sistema strutturato che richiama a latitudini ed epoche radicate nell’immaginario globale, il Cile, l’Argentina, l’Egitto. A scarne dichiarazioni internazionali di condanna, a oggi, non sono seguite misure né dentro Israele né fuori. Ne abbiamo parlato con Shai Parnes, portavoce di B’Tselem.

Nel vostro rapporto parlate di una rete di campi di tortura de facto e di abusi sui palestinesi in quanto palestinesi.

Siamo giunti a questa conclusione dopo aver intervistato, una volta rilasciati, 55 prigionieri, donne e uomini provenienti da tutta la regione, Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme est e palestinesi cittadini israeliani, detenuti in 16 diverse prigioni, 13 gestite dalle autorità carcerarie e tre dall’esercito. Il più giovane ha 16 anni, il più vecchio 65. Le testimonianze coincidono: seppure ogni caso sia unico ci sono molte similitudini. Tutti hanno subito violenze quotidiane, fame, le stesse condizioni igieniche e di abbandono. Hanno vissuto lo stesso degrado e le stesse procedure umilianti, la stessa mancanza o carenza di trattamenti medici. Hanno vissuto in celle estremamente sovraffollate: potevano contenere sei persone, ce ne mettevano 14. A fronte di queste informazioni, abbiamo concluso che si tratta di una politica sistematica e routinaria ispirata dal governo israeliano e dal ministro che è a capo del sistema carcerario, Itamar Ben Gvir.

Ricostruite i passaggi che hanno condotto a questa rete: già prima del 7 ottobre Ben Gvir aveva detto di voler rendere più dure le condizioni in carcere. Che ruolo ha e ha avuto l’estrema destra?

Ben Gvir e l’estrema destra giocano un ruolo enorme. Delle carceri aveva già parlato e, quando è stato nominato ministro, ha agito. Per i detenuti palestinesi c’è stato un cambiamento in peggio. Dopo il brutale attacco del 7 ottobre, Ben Gvir e questo governo sadico e razzista hanno approfittato dell’atmosfera in Israele, paura, ansia e la paura della perdita della sicurezza. Il governo le ha usate nel modo più cinico per realizzare la propria ideologia.

Abusi, torture e umiliazioni in carcere rientrano nella più vasta rete di oppressione e occupazione. Nel rapporto parlate di tentativo di distruggere la fabbrica sociale palestinese. C’è una politica precisa dietro tali abusi?

Quello a cui stiamo assistendo da dieci mesi sono le azioni più estreme, brutali e radicali da decenni. L’espulsione dei palestinesi e il furto delle loro terre sono sempre state al cuore della politica del regime di apartheid israeliano. Succede a Gaza e in Cisgiordania e in modo più violento dopo il 7 ottobre. L’incarcerazione di massa dei palestinesi ha una storia lunga ed è parte di tale politica. È l’obiettivo di Israele, non solo di questo governo. L’incarcerazione di 800mila palestinesi in meno di 60 anni va considerata un piano preciso. Quando detieni una persona, non colpisci solo lei: la prigionia ha effetti sulla famiglia e sulle sue dinamiche, sulla capacità di provvedere per sé, e ha effetti sulla società quando i numeri sono così enormi. Il progetto è distruggere la società palestinese.

Nonostante la gravità delle vostre accuse, le reazioni sono state blande. Ci sono state dichiarazioni a livello internazionale, ma niente di più. In Israele la stampa ne ha parlato? I tribunali hanno chiesto chiarimenti?

Una copertura da parte della stampa israeliana mainstream c’è stata, lo stesso in Europa, negli Stati uniti, America latina, Asia, Australia. Dal punto di vista giuridico, il meccanismo investigativo in Israele, fino alla Corte suprema, è un meccanismo di occultamento. Pensiamo al centro di detenzione di Sde Teiman: è stato l’appello di alcune ong israeliane che ne chiedono la chiusura a muovere la Corte suprema sul caso. Se ci fosse un sistema giudiziario vero, onesto, nel momento in cui la Corte suprema riceve una denuncia su centri di tortura, dovrebbe andare subito sul posto. E nel momento in cui verifica che si tratta di un campo di tortura, lo dovrebbe chiudere immediatamente. E invece la Corte suprema ha congelato il caso e lo ha posposto per settimane, lasciando che il regime di apartheid israeliano e l’attuale governo facciano quel che vogliono.

* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto



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