by Angelo Mastrandrea * | 24 Luglio 2024 13:11
Storia di una urbanizzazione sbagliata. Le occupazioni dopo il terremoto, il Comitato di lotta, la piazza di spaccio e gli abbattimenti
Al pianterreno della Vela Gialla a Scampia, di fronte alla Celeste dove ieri è crollato un ballatoio uccidendo due persone e ferendone altre dodici, tra cui due bambine in maniera gravissima, resiste una gigantografia di Ernesto Che Guevara. Si trova nel locale che avrebbe dovuto ospitare le riunioni condominiali. Dopo il terremoto del 1980 la Vela però fu occupata dagli sfollati che vivevano nei campi allestiti in diversi punti della periferia napoletana e il locale divenne la sede del Comitato di lotta, che per anni si è riunito all’interno. Lì dentro ha organizzato diverse proteste, prima per la regolarizzazione delle occupazioni e poi, quando negli anni Novanta la giunta di centrosinistra guidata da Antonio Bassolino decise che le Vele sarebbero state abbattute, per ottenere una migliore sistemazione nelle nuove case popolari che il Comune avrebbe dovuto costruire e assegnare. Trent’anni dopo, gli abitanti della Vela gialla sono ancora lì, come pure quelli della Vela Celeste e della Rossa, più o meno 800 persone per ogni edificio.
NEL FRATTEMPO, è finita la guerra di camorra che dagli inizi degli anni Duemila per un decennio ha contato decine di morti e i ballatoi delle Vele, in particolare di quella Celeste, da tempo non sono più la maggiore piazza di spaccio del sud Italia.
VICEVERSA, IN UN QUARTIERE di 40mila abitanti come Scampia, considerato l’emblema delle periferie difficili italiane, oggi si contano 120 associazioni attive e cinquanta spazi pubblici recuperati, con orti urbani e parchi autogestiti come quello intitolato a Melissa Bassi, la ragazzina uccisa il 19 maggio 2012 da una bomba all’istituto Morvillo-Falcone di Brindisi, o come il centro Mammut nella piazza intitolata a Giovanni Paolo II, dove si lavora quotidianamente con giovani e immigrati. Nei locali sopra l’Auditorium comunale, l’associazione Chi rom e chi no ha aperto il ristorante Chikù, che le fondatrici definiscono «un progetto di gastronomia interculturale», la casa editrice Marotta&Cafiero nel 2010 ci ha trasferito la sua sede da Posillipo, mentre il centro sociale Gridas, un acronimo che significa Centro di risveglio dal sonno, dal 1981 organizza un carnevale molto partecipato.
I MURALES DEL FONDATORE Felice Pignataro ancora si trovano, un po’ sbiaditi, sulle mura del quartiere. Sua moglie Mirella La Magna, che ha visto nascere il quartiere negli anni Settanta, qualche anno fa mi ha detto che «non si può capire Scampia se non si conosce com’è nata». «Qui abitavano solo contadini e pastori, poi hanno cominciato a costruire e il massaro che abitava qui sotto si è trasformato in capocantiere. Assegnavano i palazzi a fette, man mano che costruivano. Li vedevi illuminarsi uno dopo l’altro, mentre sotto era ancora tutto sgarrupato, con le file di ambulanti che vendevano mobili, lampadari e oggetti per l’arredamento ai nuovi residenti. Non c’erano negozi, scuole, cinema. È stato un gigantesco invito all’individualismo e all’illegalità». Il resto lo ha fatto il terremoto dell’80, con il trasferimento di 37 mila persone dal centro storico della città verso le periferie, da Caivano a Ponticelli e Scampia, e la creazione di enormi ghetti con tanti disoccupati e pochi servizi.
* Fonte/autore: Angelo Mastrandrea, il manifesto[1]
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