Per pura coincidenza, quella mattina Anas aveva lasciato la moglie e i figli a casa mentre facevano colazione per andare a fare una commissione nella vicina casa del padre. Quando ha sentito la potente esplosione, si è precipitato a controllare ed è rimasto inorridito nel trovare solo una nuvola di fumo e polvere. «L’intero edificio era ridotto in macerie – ha raccontato a +972 – Riuscivo a pensare solo alle 140 persone che erano all’interno».

Anas ha iniziato a cercare disperatamente la sua famiglia, insieme ai suoi cugini feriti Mohammad e Naji, sopravvissuti al bombardamento perché l’onda d’urto li aveva spinti fuori dall’edificio prima che crollasse. I tre hanno portato avanti i primi sforzi di ricerca e salvataggio da soli, senza l’aiuto della protezione civile di Gaza, che ha il compito di localizzare i sopravvissuti e le vittime dopo gli attacchi aerei israeliani.

Anche perché, con le reti internet e di comunicazione interrotte in tutta la Striscia in quel momento, i sopravvissuti non sono stati in grado di informare i servizi di emergenza dell’attacco. Le ambulanze sono arrivate sul posto solo dopo che il primo gruppo di feriti ha raggiunto l’ospedale battista Al-Ahli a bordo di auto private e hanno segnalato la posizione dell’attacco. La moglie di Anas, Lena, e i loro due figli, Kariman di 5 anni e Fayez di 3, non sono stati estratti dalle macerie. Nemmeno i genitori e i fratelli di Lena.

Dopo essersi reso conto della portata della tragedia che lo aveva colpito, Anas ha iniziato a scrivere i nomi di coloro i cui corpi non potevano essere recuperati. Inizialmente, lo choc è stato così forte che non è neanche riuscito a ricordare molti dei loro nomi, compresi quelli di sua moglie e dei suoi figli. Con il tempo, però, è riuscito ad annotarli tutti e 60.
«Siamo stati decimati – ha raccontato Anas parlando della sua famiglia – Qual è stato il loro crimine che gli ha fatto meritare di essere uccisi in questo modo? Nessuno di loro apparteneva a una fazione o a un’organizzazione e non siamo stati presi di mira in nessuna guerra precedente».

Nonostante i mesi trascorsi dal bombardamento, Anas non ha perso la speranza di poter dare un giorno una degna sepoltura alla sua famiglia. Per ora, però, la protezione civile non può fare di più per aiutare a recuperare i resti dei suoi parenti: le loro attrezzature sono usurate e non hanno il personale necessario per far fronte all’entità dei bombardamenti israeliani, ancora in corso.

«Sono anche impegnati a operare sui siti degli attacchi in cui ci possono esserci dei sopravvissuti, non hanno tempo per casi come il nostro – ha aggiunto Anas – I nostri cuori soffrono di angoscia».

Cadaveri in decomposizione

La famiglia di Anas è tra le migliaia di palestinesi registrati come «dispersi» a Gaza dal 7 ottobre, la maggior parte dei quali si pensa sia intrappolata viva o morta sotto edifici distrutti e i cui corpi non sono stati registrati negli ospedali. Il Comitato internazionale della Croce rossa ha ricevuto richieste di informazioni su oltre 8.700 casi di questo tipo, tre quarti dei quali rimangono irrisolti.

Il ministero della sanità di Gaza stima che il numero totale di dispersi sia ancora più alto: circa 10mila persone. Questo numero non è incluso nel bilancio complessivo delle vittime dei bombardamenti israeliani, che attualmente ammonta a più di 38mila persone. Poiché la maggior parte delle strutture mediche di Gaza non funziona più a causa dei bombardamenti o delle evacuazioni forzate, il lavoro di recupero, identificazione e conta di tutte le vittime continuerà probabilmente per anni.

«Quando veniamo a conoscenza del numero di persone che non riusciamo a salvare, soprattutto bambini, ci sentiamo frustrati e piangiamo per la nostra impotenza, nonostante i nostri sforzi», ha dichiarato a +972 il portavoce della protezione civile Mahmoud Basal. La parte peggiore, ha detto, è quando «sentiamo la voce di qualcuno da sotto le macerie e non possiamo salvarlo».

Basal ha spiegato che l’estensione della devastazione causata dall’assalto israeliano, l’intensità degli attacchi e le restrizioni all’ingresso di nuovi macchinari e attrezzature nell’enclave assediata rendono impossibile per il personale di soccorso recuperare tutti i corpi. Secondo lui, le squadre della protezione civile sono sotto tiro anche quando intervengono dopo gli attacchi aerei, nonostante le salvaguardie che dovrebbero essere garantite dal diritto internazionale. «Questo è un crimine atroce», ha sottolineato.

Basal ha spiegato che fino a quando non ci sarà una completa cessazione degli attacchi israeliani la protezione civile non sarà in grado di recuperare la maggior parte dei corpi dei dispersi di Gaza. Anche allora, secondo le sue stime, potrebbero volerci dai due ai tre anni nel migliore dei casi per recuperarli tutti. «Durante la tregua temporanea (durata sette giorni a fine novembre), abbiamo cercato di recuperare alcuni dispersi da sotto le macerie delle case, ma il tempo limitato e la mancanza di attrezzature hanno rallentato il processo».

Quando sono riuscite a recuperare i corpi, nei giorni in cui gli attacchi israeliani sono stati meno intensi, le squadre della protezione civile hanno scoperto cadaveri in avanzato stato di decomposizione. «I corpi delle vittime erano completamente decomposti, soprattutto quelli dei bambini».

Secondo le Nazioni unite, lo sgombero delle 40 milioni di tonnellate di macerie di Gaza potrebbe richiedere 15 anni. Già ora, ha avvertito Basal, «il continuo accumulo di migliaia di corpi sotto le macerie ha iniziato a diffondere malattie ed epidemie, soprattutto con l’arrivo dell’estate e l’aumento delle temperature, che accelerano il processo di decomposizione».

WCNSF

Tra i 10mila dispersi che si pensa siano sotto le macerie, Save the Children stima che più della metà siano bambini. Altre migliaia sono stati sepolti in fosse comuni o senza intestazione, sono in mano alle forze israeliane o sono stati dispersi o separati dalle loro famiglie a causa della confusione, portando il numero totale di bambini palestinesi di cui non si conosce la sorte a circa 21mila. Alcuni di coloro che sono arrivati negli ospedali senza essere identificati sono classificati con il macabro acronimo inglese «Wcnsf»: bambino ferito, senza famiglia superstite.

Per mesi, gli account dei social media di Gaza sono stati inondati di annunci di persone scomparse, soprattutto bambini. Sono aumentati sulla scia dell’ultima fuga di massa generata dall’invasione di Israele della città meridionale di Rafah all’inizio di maggio.

Tra questi c’è Ahmad Hussein, un bambino che non ha ancora compiuto due anni, scomparso durante l’esodo dall’area della rotonda di Awda, nel centro di Rafah, mentre i residenti fuggivano verso la zona costiera di Al-Mawasi. «Eravamo tre famiglie che trasportavano i propri averi su due furgoni – ha raccontato la madre di Ahmad, Samah, a +972 – Pensavo che Ahmad fosse con suo padre, che pensava fosse con me. Abbiamo scoperto che era scomparso mentre scaricavamo i camion nella zona di Asdaa’; ho chiesto a suo padre di lui, ma non sapeva dove fosse Ahmad».

Il padre di Ahmad, Rami, è tornato subito al punto di partenza del loro viaggio, ma non è riuscito a trovare Ahmad e nessun altro nella zona lo aveva visto. Rami ha presentato una denuncia alla Croce Rossa e alla polizia per la scomparsa del figlio e ha pubblicato diversi annunci sui social media. «Ogni giorno lo cerchiamo tra i vivi e i morti – ha detto Samah – Abbiamo cercato ovunque: in ogni ospedale, in ogni organizzazione, in ogni stazione di polizia. Ma non abbiamo ricevuto alcuna informazione».

Prendendo la mia mano nella sua, Samah ha continuato: «Se sapessi che è stato ucciso, per me sarebbe più sopportabile rispetto a questa incertezza. Non sappiamo se sia vivo o morto, se sia stato attaccato dai cani, se sia stato detenuto o se sia stato preso da un soldato dell’esercito di occupazione e portato in Israele».

Identificazione dei corpi

Le forze di polizia di Gaza non partecipano direttamente alla ricerca di persone scomparse a causa delle risorse limitate e del fatto che le stazioni di polizia e gli agenti sono spesso presi di mira dall’esercito israeliano. Tuttavia, una fonte della stazione di polizia di Khan Younis, che ha parlato con +972 a condizione di restare anonima per paura di essere presa di mira, ha detto che la polizia cerca comunque di aiutare dove può, anche se senza coordinamento o assistenza da parte delle organizzazioni internazionali.

«Non ci sono squadre di ricerca specializzate – ha spiegato la fonte – Le informazioni vengono raccolte dai parenti e gli annunci relativi alla persona scomparsa vengono diffusi su dei gruppi WhatsApp specifici della polizia. Vengono diffusi il numero di cellulare, l’indirizzo e le foto del denunciante. Una volta trovate le informazioni, chi denuncia viene avvisato».

La fonte ha descritto il processo di identificazione dei corpi che arrivano negli ospedali: «Quando il corpo è già decomposto, vengono scattate foto dei vestiti e di eventuali segni di riconoscimento; queste informazioni, insieme al luogo (in cui il corpo è stato trovato), vengono trascritte nei registri del Dipartimento di Investigazione generale».

«Se il corpo non si è ancora decomposto e i tratti del viso sono identificabili, il corpo viene fotografato e le foto vengono pubblicate sui social media – ha proseguito la fonte – Il corpo viene poi messo nel frigorifero dell’ospedale per tre giorni. Se dopo questo periodo non viene identificato, viene seppellito».

Quando gli ospedali sono troppo pieni di vittime, tuttavia, la fonte ha spiegato che ai corpi viene assegnato un numero e poi vengono sepolti immediatamente in un luogo designato. Una volta identificati, «il numero viene sostituito con il vero nome della persona, che viene rimossa dall’elenco delle persone scomparse. La famiglia può quindi decidere se trasferire il corpo nel luogo di sepoltura di famiglia o lasciarlo nello stesso luogo di sepoltura in cui è stato inizialmente inumato».

La fonte ha sottolineato che i numeri delle persone scomparse o registrate come non identificate sono solo stime: ogni giorno nuovi corpi vengono registrati come scomparsi mentre altri vengono identificati. «Per accertare con precisione tutte le cifre, è necessario che la guerra cessi».

Nel frattempo, la Croce rossa ha lavorato attivamente al ricongiungimento familiare fin dall’inizio della guerra, anche facilitando il rilascio dei detenuti e riportandoli dai centri di detenzione israeliani alle loro famiglie. Secondo il portavoce della Croce rossa a Gaza, Hisham Mhanna, l’organizzazione ha contattato più di 980 prigionieri rilasciati per raccogliere informazioni sul loro trattamento e sulle condizioni di detenzione. In questo modo, ha spiegato, la Croce rossa intende «rafforzare il dialogo con le autorità competenti su questo tema e aumentare la pressione sulle autorità israeliane affinché permettano la ripresa delle visite in carcere».

«Senza senso»

Secondo il ministero della sanità di Gaza, dal 7 ottobre i bombardamenti israeliani hanno ucciso più di 14mila bambini palestinesi, di cui circa la metà non sono ancora stati identificati completamente. Un recente rapporto delle Nazioni unite ha rilevato che c’erano bambini anche tra i morti scoperti di recente nelle fosse comuni, dove i corpi mostravano segni di tortura, esecuzioni sommarie e potenziali casi di persone sepolte vive.

Come spiega Save the Children, i bambini, a causa della vulnerabilità del loro corpo, hanno sette volte più probabilità degli adulti di morire in seguito a delle ferite da esplosione. Il che significa che hanno anche maggiori probabilità di subire ferite così orribili da deformare il loro corpo in modo irriconoscibile. A volte, però, le dimensioni ridotte dei bambini possono essere un vantaggio: evitano che vengano schiacciati dalle macerie o siano colpiti da schegge.

Ad esempio, Hamza Malaka, un bambino di due anni, è stato l’unico sopravvissuto (un Wcnsf) di un attacco aereo israeliano del 14 ottobre che ha spazzato via diverse generazioni della sua famiglia, tra cui anziani, bambini piccoli e una donna incinta. Nove mesi dopo, nessuno è stato in grado di determinare il numero totale delle vittime ancora intrappolate sotto le macerie della sua casa nel quartiere Zeitoun di Gaza City. Secondo le stime dei vicini, la famiglia comprendeva 26 persone e molti di quei corpi devono ancora essere recuperati.

Lo zio di Hamza, Mohammad, che vive in California, ha dichiarato a +972 di aver chiesto a un amico di occuparsi di Hamza fino a quando non riuscirà a trovare un modo per evacuare il bambino da Gaza e prenderlo in custodia. «Non so quante persone fossero in casa quando è stata bombardata, o quante fossero già partite e ora sono sfollate in altre zone di Gaza», ha raccontato Mohammad.

Naji Juha, cugino di Anas, desidera solo poter dare una degna sepoltura alla figlia Kenzi, di due anni. Dopo il bombardamento alla palazzina di famiglia, che ha ucciso 117 dei suoi parenti, è riuscito a recuperare i corpi di sua madre, di suo padre, dei suoi fratelli, dei suoi nipoti, di sua moglie e di suo figlio, ma la cosa più difficile, dice, è non sapere cosa sia successo a Kenzi.

«Il suo corpo è stato sventrato? È morta bruciata nell’esplosione? È sopravvissuta all’esplosione prima di soffocare sotto le macerie?». Con queste domande senza risposta, Naji sta lottando per continuare una vita che, dice, «è diventata senza senso».

* Inchiesta realizzata e pubblicata da +972mag

* Fonte/autore: Ibtisam Mahdi, il manifesto