Multinazionali. Colombia, il braccio armato di Coca Cola
Le multinazionali Usa pagavano i paramilitari per reprimere i lavoratori
Non era solo la Chiquita a pagare i paramilitari delle Auc, le Forze di autodifesa unite della Colombia, perché impedissero ai lavoratori di alzare la testa. Nella lista dei finanziatori ci sarebbe infatti anche la Coca Cola, insieme ad altre compagnie di banane, a partire dalla Dole, e a imprese come la Postobón, la più grande azienda di bevande colombiana.
AD AFFERMARLO è stato l’ex comandante del Bloque Bananero delle Auc Everth Veloza, noto con lo pseudonimo di “HH”, che, in un’intervista rilasciata dal carcere di Itagüí all’emittente W Radio, ha dichiarato che nessuna di queste imprese, grandi, medie o piccole che fossero, era vittima di estorsioni da parte dei paramilitari. «Tutte le aziende di banane ci finanziavano per impedire gli scioperi. Andavamo di coltivazione in coltivazione ad avvertire i braccianti che chi scioperava si sarebbe trasformato in un obiettivo militare», ha ricordato Veloza, mostrandosi pentito di essersi prestato a servire gli interessi di settori potenti a spese dei contadini di Urabá e di altre zone. E ha aggiunto: «anche Postobón e Coca-Cola ci davano denaro».
Riguardo alla multinazionale statunitense, in realtà, l’accusa non è nuova. Già nel 2005, il Sinaltrainal, il Sindacato nazionale dei lavoratori dell’industria alimentare, aveva lanciato la campagna di sensibilizzazione e di boicottaggio Stop Killer Coke al fine di fermare l’impressionante serie di episodi di violenza antisindacale denunciati dai lavoratori degli stabilimenti di imbottigliamento della Coca Cola in Colombia.
«LA NOSTRA organizzazione sindacale – denunciava il Sinaltrainal – è stata falcidiata da sequestri, detenzioni, torture e omicidi commessi da forze paramilitari che hanno agito nell’interesse delle grandi imprese che operano in Colombia, come la Coca Cola e la Panamerican Beverages-Panamco» (la maggiore società imbottigliatrice in America Latina). All’interno delle fabbriche, proseguiva il sindacato, «gli operai vivono in un clima di repressione, controllati a vista da videocamere e personale armato. È sufficiente partecipare a una riunione sindacale per ricevere la notifica di licenziamento e, se il lavoratore la impugna, è costretto a fare i conti direttamente con le minacce dei capi della sicurezza, pagati dall’impresa».
E per il Sinaltrainal non c’erano dubbi che la transnazionale di Atlanta traesse «vantaggio dalla repressione sistematica dei diritti sindacali» e non proteggesse «come avrebbe dovuto i lavoratori colombiani dagli atti di persecuzione».
Accuse da cui la multinazionale si era difesa sostenendo di non potersi assumere la responsabilità delle violenze commesse dagli impianti colombiani in quanto gestiti da altre società. «Le imbottigliatrici in Colombia sono compagnie del tutto indipendenti e pertanto non abbiamo a che vedere con i loro dipendenti o sindacati», aveva commentato l’Ufficio degli Affari Internazionali della Coca Cola da Atlanta. Il solito scaricabarile.
MA QUANTO POCO di «real magic» vi sia nella presenza della multinazionale in Colombia lo dimostra anche il suo scontro con la Coca Nasa, una piccola impresa comunitaria del dipartimento del Cauca produttrice di bevande, alimenti e medicine tradizionali a base di foglia di coca – pianta sacra per i popoli indigeni -, a cui nel 2021 il colosso statunitense aveva intimato di non usare il nome Coca Pola per la sua birra o qualsiasi termine che potesse venir confuso con il suo marchio storico. Un’offensiva a cui le comunità indigene Nasa ed Emberá Chamí, autorizzate per legge a coltivare la pianta e a commercializzare i prodotti che ne derivano, avevano risposto accusando a loro volta la compagnia di «pratiche abusive» – per aver registrato il marchio Coca Cola senza consultarle – e minacciando misure giudiziarie e commerciali, tra cui il divieto di vendita della bibita nei loro territori.
E ANCOR PRIMA, nel 2007, la multinazionale aveva chiesto il ritiro dal mercato della bevanda Coca Sek, prodotta anch’essa dalla Coca Nasa, sempre con la stessa motivazione: la rivendicazione del copyright sulla parola «coca», come se fosse possibile registrare parole comuni come «coca» e «cola». E, infatti, aveva perso.
* Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto
ph Kilobug, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons
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